Davide Gentile: Denti da squalo, alla ricerca dell’innocenza perduta

Davide Gentile con Edoardo Pesce

Una storia, scritta da Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, che vince il premio Solinas nel 2015. Un regista (classe 1985) che dopo due pluripremiati cortometraggi (Food for Thought, 2016 e Omar, 2017), decide di fare il suo esordio nel lungometraggio scegliendo questo «racconto di formazione al contrario» in cui il tredicenne Walter (Tiziano Menichelli) deve fare i conti con un padre ingombrante (Claudio Santamaria) che non c’è più, una madre (Virginia Raffaele) con cui fatica a relazionarsi, un nuovo amico, Carlo (Stefano Rosci), sorta di Lucignolo che lo porta nel moderno paese dei Balocchi dove comanda il malvagio Tecno (Matteo Scattaretico), un cattivo mitizzato, il Corsaro (Edoardo Pesce). E uno squalo… Gentile si muove abilmente tra i generi cinematografici, realizzando un racconto che è insieme intimo e universale (qui la recensione di Tonino De Pace). Alle spalle una produzione importante (Gabriele Mainetti per Goon Films, Mattia Guerra, Stefano Massenzi e Andrea Occhipinti per Lucky Red, Claudio, Federico e Jacopo Saraceni per Ideacinema con Rai Cinema, in collaborazione con Prime Video) per un film, uscito giovedì 8 giugno, in oltre 200 sale. Abbiamo incontrato Davide Gentile.

 

 

Cosa ti ha fatto pensare che fosse questa la storia giusta per il tuo primo lungometraggio?

Stavo scrivendo con Cilio un mio soggetto/trattamento per un lungo che procedeva faticosamente perché da esordiente è tutto dieci volte più complicato e mi è capitato tra le mani questo script. Me l’ha mandato il mio agente perché erano in cerca di un regista e non riuscivano a trovarne uno adatto per questa storia. L’ho letto, mi sono subito appassionato e ho capito – forse anche in modo cinico, non solo artistico – che entrare nel mercato con questo film sarebbe stato un ottimo inizio per la mia carriera e soprattutto avrebbe dato più spazio alle mie future storie e maggiore credibilità al mio essere regista e così è stato. Ho passato tre mesi a parlarne con Gabriele Mainetti per capire se era la scelta giusta per entrambi e quando ci siamo convinti, siamo partiti. Era la primavera del 2021 ed è passato un altro anno per lo shooting perché era troppo tardi per iniziare a pensare alle riprese in quell’estate, quindi abbiamo girato nell’estate del 2022.

 

Davide Gentile sul set

 

Nelle note di regia definisci Denti da squalo un racconto di formazione al contrario…

Guardo alla generazione dei 13-15enni – ne ho conosciuti tanti anche durante i casting – e vedo che c’è molta frenesia, una fretta nel crescere o nel fare determinate esperienze o nel farsi vedere agli altri più grandi di quel che si è. Tutto questo passa dall’abbigliamento agli atteggiamenti ai social, si tratta di un insieme di cose che trovo molto diverso rispetto a come sono cresciuto io, credo in modo sano, dando il giusto ritmo alla crescita. Per questo l’ho definito una storia di formazione al contrario perché normalmente nei film o nei romanzi di formazione c’è il ragazzino o il bambino che poi diventano adulti, questo è il loro percorso. In Denti da squalo l’epifania di Walter è proprio rendersi conto, dopo certi passi, che è bello essere ancora dei bambini e allora si torna quasi un po’ indietro. In realtà è un passo ancora più grande di crescita per come la vedo io, è un raddoppiamento più che un contrario.

 

Per me – ma vale sempre il principio che ognuno vede quello che vuole vedere – è anche un racconto per superare la perdita di una persona cara e per lasciare andare chi non c’è più.

Mi sta sorprendendo che le persone ne discutano in modalità e angoli che non mi aspettavo, forse perché a volte – anche inconsciamente – uno trasmette dei messaggi o crea scene e momenti che poi non riesce bene a leggere, mentre ogni persona ci trova quello che più l’ha toccato. Chi ha perso il padre, chi è padre e vorrebbe indirizzare i figli verso scelte più giuste, l’amicizia, questo elemento metaforico dello squalo dove poi ognuno trova il significato che vuole… Per esempio, il film piace molto alle donne nonostante ci sia un’unica figura femminile. Devo dire che la cosa che mi dà più soddisfazione è che all’uscita dal cinema le persone hanno voglia di chiacchierare del film. A me da spettatore succede raramente, spesso i film mi scivolano addosso, non mi lasciano niente a fine serata. Quindi anche solo discuterne o minimamente emozionarsi è già un grandissimo risultato. Poi i difetti ci sono, le carenze, qualche ingenuità… per carità. Non sono miope, non grido al capolavoro, anzi sono fin troppo critico però questi elementi positivi me li porto a casa.

 

È una favola dark, con ambienti cupi (lo sgabuzzino della casa in cui Walter vive con la madre, il sotterraneo della villa). Come hai lavorato su questo aspetto?

Volevo che tutti gli elementi della storia fossero dei simboli o comunque delle situazioni o dei luoghi che lavorassero in funzione della storia. Questo vale anche per i personaggi anche se poi ognuno ha le sue caratteristiche e la sua evoluzione. Il seminterrato per Walter è come lo sgabuzzino per la madre: è quel luogo di non accesso, di paura, davanti alla quale non si può far finta di niente perché per entrambi rappresenta il padre. Lo squalo nel seminterrato, che è un po’ l’inconscio del ragazzino, e lo sgabuzzino con le cose del padre per la madre che finisce per fare pace con lui perché alla fine entra nello sgabuzzino e si immerge nelle fotografie di lei, del figlio e del marito. Allo stesso modo per Walter è necessario entrare in questa terra buia e paurosa che è lo scantinato per riconnettersi con il padre. Poi, alcune cose sono molto sfumate e probabilmente non arriveranno a nessuno però l’intenzione era proprio quella di ricreare un parallelismo negli ambienti tra la mamma e il figlio.

 

 

È anche un film notturno con grandi aperture di luce…

Volevo che anche il buio e la luce fossero elementi di racconto. Il film va scurendosi perché l’ingresso nella criminalità, e di conseguenza entrare in certe emozioni, appesantisce ma poi si va a chiudere dopo l’alba con una scena di sole perché la vita continua e alla fine tutti fanno pace con il proprio passato di dolore. Da questo punto di vista c’è anche un lavoro sui costumi che vanno scurendosi, si inizia con i colori caldi, gialli, arancioni, rosa che sono le magliette di Walter, e mano a mano diventano sempre più scure, dall’azzurro si passa al blu scuro per poi tornare alla fine a una maglietta chiara perché Walter torna a essere un bambino (e la mamma gli scioglie i capelli per ritrovare il suo bambino). Si tratta di piccoli elementi che sommati danno queste sensazioni.

 

L’incipit in spiaggia mi ha ricordato Lo squalo così come la visione ad altezza di bambino è caratteristica di molti film di Spielberg. È stato per te un punto di riferimento?

Lo è nella vita nel senso che sono cresciuto con i suoi film però, a essere sincero, non ho rivisto nessun suo film prima di girare il mio, un po’ per pigrizia perché avevo poco tempo, ma anche perché non volevo assorbire troppe cose. Son contento ci sia questo parallelismo, più con E.T. perché è una storia di scoperta, di mantenere un segreto alla mamma, di un incontro che cambia la vita.

 

 

Dove hai trovato lo strepitoso Tiziano Menichelli?

Con Davide Zurolo il casting director, avevamo praticamente coperto tutto il casting, ma ci mancava Walter perché era il più difficile da trovare. Abbiamo fatto 600 casting e non lo abbiamo trovato. Poi alla fine è successo: a cinque settimane dallo shooting, quando eravamo sul punto di rimandare tutto, camminando per Ostia ho visto un ragazzino che giocava a basket, mi sono girato e dopo un secondo ho detto: «È lui!». Sono andato a parlare con i genitori, l’ho conosciuto ed è stato un vero colpo di fulmine, un innamoramento puro che continua nel senso che provo ancora forti emozioni quando sto con Tiziano. Abbiamo fatto un bellissimo percorso insieme, a livello lavorativo, ma soprattutto personale ed emotivo, è diventato il mio fratellino e la sua famiglia è diventata la mia seconda famiglia per me… È un fenomeno.