Di detour, si sa, è pieno il cinema, come quello che da un viaggio (reale) al Camping du lac, conduce al primo lungometraggio (di fiction) di Éléonore Saintagnan, in concorso al Torino Film Festival. Sullo schermo, tutto inizia con una scommessa – partire senza avvertire nessun amico o parente – e soprattutto una fuga, verso il mare e, perché no, pure l’ignoto. Un guasto alla vettura e la nostra Éléonore si ritrova però costretta a una sosta fuori programma vicino a un lago della Bretagna. Un posto attorno a cui si è sviluppata una varia umanità, che magari come lei si è ritrovata lì un po’ per caso, presso uno specchio d’acqua distante dalle rotte turistiche o comunque più battute, e che poi è rimasta a formare una piccola comunità sospesa, fra le realtà, il tempo e le tradizioni. Lo sguardo della cineasta racconta così una vicenda in cui la formazione da documentarista trova facile appiglio e favorisce un’indagine dal piglio goloso, di chi è affascinato dalle storie che naturalmente incrocia. Un po’ con la levità di un Eugene Green, un po’ con l’attenzione di un Gianfranco Rosi ben più partecipe, la Saintagnan esplora così questi micromondi, dedica ai vari personaggi il giusto spazio, lasciandosi guidare dalle loro parabole di vita e dalle rispettive interazioni.
Soprattutto, però, ha la generosità di uscire da sé stessa e lasciare che in queste vicende il film amabilmente si tuffi e si perda, spostando di volta in volta il baricentro narrativo. Immergersi nella vita è in fondo un po’ come nuotare e così il lago diventa un collante sociale, sorta di desco naturale attorno a cui ci si ritrova, anche quando ognuno ha il suo angolino personale, che diventa parte di un mosaico raccontato con dolcezza. Ancor più, però, a fare la differenza è la leggenda locale del mostro, le cui origini risalgono alla vita del santo Corentin di Quimper, che vediamo ripercorsa in un lungo e poetico flashback che sembra quasi un’appendice del Re Granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Qui la traccia documentaria si perde anche lei, con/fusa a quella fantastica che immagina il grosso pesce come un’entità invisibile ma benevola che rinsalda il legame fra l’uomo e la natura. Un rapporto che però mostra allo stesso tempo tutte le perversioni date dalla torsione che si ottiene quando il culto dei pochi diventa l’oggetto dell’interesse dei molti. Così come il santo si nutriva della carne del pesce che ricresceva durante la notte, il mostro è un nutrimento comunitario, che si corrompe una volta offerto agli estranei.
L’ultima parte esplicita pertanto il sottotesto horror del racconto, che non è dato tanto dalla presenza di una creatura misteriosa, quanto dalla capacità che l’uomo ha di perdere il contatto con il magico per logiche meramente commerciali: che sia una “semplice” metafora delle logiche sfruttatrici del turismo di massa rispetto agli spazi che meritano di vivere con i propri ritmi e i propri tempi, il lavoro che si dipana in Camping du Lac è essenzialmente quello di una fiaba dal sapore agrodolce, ancor più incisiva perché vera. Il progetto nasce infatti come opera “piccola” e personale, portata avanti con un budget estremamente ridotto – di quelli normalmente riservati a titoli di durata molto inferiore – ma che sa farsi racconto universale che va al di là della semplice analisi antropologica su un momento e un luogo. È un film che vuole parlare della vita e come tale ne abbraccia i chiaroscuri, arrivando dolorosamente (e inevitabilmente) alla perdita dell’innocenza, quella che unisce gli avventori al loro lago, i credenti al loro dio e lo spettatore al desiderio di vedere rappresentato ancora una volta l’ultimo esempio di mondo (im)possibile.