Ritorno al Tenno: 5 film restaurati di Akira Kurosawa per Il Cinema Ritrovato

Vivere (1952)

“La famiglia da cui discendo è caratterizzata a quanto sembra da un’emotività e da un’irrazionalità eccessiva. Noi Kurosawa siamo stati sovente lodati per la sensibilità e il buon cuore, ma io direi che abbiamo nel sangue una buona dose di sentimentalismo e di assurdità”. Con umiltà, così Akira Kurosawa si raccontava nella sua celebre autobiografia L’ultimo samurai (da noi uscì per Baldini & Castoldi nel 1995), smontando in parte la lucidità che gli è sempre stata attribuita relativamente alla sua filmografia. Un ensemble unico per coerenza e definizione, ragionato anche nel numero di titoli di cui si compone (30 film in 50 anni, inferiore alla classica media di tanti colleghi) e reso possibile dal potere contrattuale acquisito con i consensi internazionali e dall’indipendenza con cui l’autore si era posto rispetto allo schiacciante sistema degli Studios nipponici. L’iniziativa del Cinema Ritrovato di riportare in sala 5 suoi film in versione restaurata è quindi un’occasione imperdibile per meglio comprenderne non solo la poetica, ma anche il rapporto con il mercato e il momento storico in cui Kurosawa si trovava a operare, dall’immediato dopoguerra alla Golden Age del cinema nipponico. (in apertura Akira Kurosawa sul set di Yōjinbō, da noi La sfida del samurai).

 

I sette samurai (1954)

 

Ché in effetti, pur nel desiderio evidente di rappresentare un unicum rispetto alle dinamiche industriali del sistema, comunque Kurosawa si muoveva sempre all’interno del complesso dei generi che quella macchina alimentava. Ne è un buon esempio Cane randagio, del 1949, con cui l’autore si poneva al crocevia fra il racconto della malavita già intrapreso con il precedente L’angelo ubriaco (autentico precursore di tanto yakuza eiga a venire) e il noir con una dichiarata ispirazione dai gialli di Simenon: la storia del poliziotto cui viene rubata la pistola utilizzata poi dal ladro per commettere un crimine, è impreziosita non solo dall’attenzione psicologica per il dramma del protagonista, ma anche da un taglio documentaristico nella descrizione della città e delle dinamiche nei bassifondi, che tornerà in altre opere dell’autore. Merito anche del lavoro compiuto dalla seconda unità coordinata da Ishiro Honda e della fotografia del sodale Asakazu Nakai, estremamente preciso nel catturare le azioni in esterni e le scene che coinvolgono masse di personaggi. Ancora più chiaro in questo senso è il lavoro condotto insieme dai due nelle sequenze di massa del celebratissimo I sette samurai, con cui Kurosawa inaugura il suo filone jidai-geki (da non confondere con altri esempi di period drama in cui l’autore si era già cimentato, ad esempio Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre, di più chiara derivazione kabuki).

 

Sanjuro  (1962)

 

Realizzato nel 1954 e frutto di un anno di lavoro, questo epico racconto di onore e salvezza dal taglio quasi western (non a caso ispirerà proprio dei lavori di questo tipo a Hollywood) e non privo di venature picaresche, resta tutt’oggi un manifesto del Kurosawa pensiero, fra grande forza spettacolare e attenzione alle dinamiche interpersonali, evidenti nella figura del saggio leader interpretato da Takashi Shimura, che con questo ruolo trova un po’ il “suo” personaggio, incarnazione della ragione e dell’umanità (nello stesso anno, mutatis mutandis, l’attore ne ripropone la stessa tipologia anche nel primo Godzilla). Di Shimura resta imperdibile anche l’altra grande interpretazione in Vivere, del 1952, che pure rientra nel pacchetto bolognese: realizzato all’indomani della trasposizione de L’idiota di Dostoevskij, il film rinnova il legame fra Kurosawa e i classici della letteratura russa, data l’ispirazione da La morte di Ivan Il’ič. Se per Tolstoj la storia di un uomo che va incontro alla morte per malattia e fa un bilancio della sua esistenza, assume un tono più affine alla crisi spirituale, Kurosawa la riscrive nel segno di quella sensibilità umana e emotività di cui si accennava, empatizzando con la tragedia del personaggio di Shimura, che viene elevata a paradigma di un’esigenza morale rispetto alle azioni da compiere per il bene della società – l’agire erratico del protagonista troverà una sua piena spiegazione solo nello struggente finale.

 

Cane randagio (1949)

 

La proposta del Cinema Ritrovato si completa con il dittico composto da La sfida del samurai e Sanjuro, in cui sono ancora le azioni di eroi solitari a gestire il complesso sistema di apparenze e finalità su cui si regge un po’ tutta l’opera dell’autore, volta a mettere in crisi i meccanismi consolidati della società giapponese in nome della riscoperta di un’umanità più autentica. Del primo già tanto si è scritto per le dichiarate ispirazioni fornite a Sergio Leone, ma va rimarcato pure come il film segni un nuovo capitolo della collaborazione fra il regista e lo sceneggiatore Hideo Oguni (già all’opera sui citati Vivere e I sette samurai), che Kurosawa non cita nella sua biografia, ma è stata la penna più capace di lasciar emergere il sottotesto umano delle sue opere. A questo si accompagna la costruzione visiva concertata con Kazuo Miyagawa, il direttore della fotografia di Rashomon maestro dei contrasti visivi e abile come pochi a gestire le luci, donando alle atmosfere del film una corposità che si travaserà in modo molto naturale nel barocchismo dei Dollari di Leone. Il tutto senza dimenticare ovviamente la sfida attoriale tra Toshiro Mifune e Tatsuya Nakadai, altri segnali di un rapporto di collaborazione continuativa che Kurosawa ha sempre mantenuto con i “suoi” attori e tecnici, a ulteriore conferma della coerenza della sua opera, in barba alla spinta emotiva e irrazionale da lui così ironicamente rimarcata.
 
Il Cinema Ritrovato: Omaggio ad Akira Kurosawa

La programmazione dell’Omaggio in Italia