La vita quotidiana per un insegnante curdo a Istanbul. Che significa una quotidianità diversa, con sfumature malinconiche in ogni gesto, anche quello più semplice e insignificante. Si è spinti a cercare questi gesti in La canzone perduta, opera prima di Erol Mintaş che, con rigoroso uso del non detto, racconta una storia senza inizio né fine, osservando i suoi personaggi e insinuandosi nei loro spazi silenziosamente. Quello che sappiamo è che un’anziana donna deve lasciare la sua vecchia casa per trasferirsi dal figlio in un quartiere diverso della città, ma in questa casa la mancanza di punti di riferimento la spinge in una deriva progressiva, di oblio e di confusione mentale. È una donna stanca di andare avanti come se nulla fosse, come se le sue origini curde fossero da dimenticare o da pronunciare a bassa voce. Vorrebbe tornare nel suo vecchio villaggio e cerca una canzone che nessuno ha mai sentito. Così, mentre il figlio Alì va per mercati e amici a chiedere della misteriosa canzone, Nigar ogni giorno prepara la valigia per tornare da dove è venuta. Nel ripetersi di questo triste rituale, ci sono, però, il senso di una vita vissuta in disparte – parlando una lingua quasi proibita – e il legame doloroso ad un’identità che si vorrebbe cancellare. Ecco perché ad Alì e Nigar non sembra strana una giornata in cui si ripetono sempre le stesse movenze, perché in questa insistenza c’è il senso della sopravvivenza caparbia di un popolo. “Se noi curdi non fossimo stati testardi, non esisteremmo più” dice infatti un vecchio zio di Alì. Resistenti e disorientati, dunque, tra il desiderio di tornare indietro e la necessità di continuare ad esistere. Più che mai teso verso differenti opzioni, questo film getta i suoi semi con discrezione e tenacia. Un continuo andare e venire e segni che tornano a manifestarsi. Come la storia che raccontava il maestro di Alì al villaggio, che un giorno è stato portato via dall’unità anti-terrorismo proprio sotto gli occhi dei suoi studenti. Ora lui racconta la stessa storia ai suoi allievi, per non dimenticare.
Ma non tutto è spiegato da Mintaş, capace di costruire il racconto a partire dall’intreccio sapiente di profonde ellissi e sospensioni, di piani sequenza e camera fissa. Il tempo, così, trascorre senza che ce ne venga data prova, alimentando la sensazione di straniamento di Nigar, esasperando la frustazione di Alì ma lasciando fuori la fidanzata di lui, che sembra vivere e muoversi secondo tempi diversi e talvolta inconciliabili. A dimostrazione che quella che si vuole raccontare è proprio una storia curda, ma quasi “in assenza”, perché non c’è una storia vera e propria da ricostruire, quanto un insieme di sentimenti legati alla perdita e la sensazione acuta dello sradicamento, nonostante il coraggio e la perseveranza. Il non dire della questione curda è scelta più che mai efficace: resta nelle pieghe del discorso e come tale si impone, si fa cercare, si mostra negli interrogativi lasciati inespressi e nell’opacità di sguardi che non riescono a guardare il mondo che li circonda dritto negli occhi. Troppe cose sono state fatte, troppe sofferenze imposte e ancora silenziosamente accettate. Il non dire, dunque, equivale ad un urlo soffocato e pacato, la prova forte di una resistenza silenziosa ma non svilita.
La canzone perduta – trailer from Lab 80 film on Vimeo.