Quarant’anni dall’uscita e un lungo silenzio che per troppo tempo l’ha condannato all’oblio: nella parabola de L’amour violé si ritrova in fondo quella della sua protagonista Nicole, vittima di uno stupro di gruppo che diventa argomento di dibattito, ma anche fardello scomodo, da rimuovere in attesa che cali di nuovo il sipario sulle consuetudini radicate. Invece rieccolo questo misconosciuto classico, nella smagliante forma dell’edizione restaurata e nell’uscita DVD della Shockproof (che recupera anche il bellissimo bozzetto originale di Liliane Pelizza per la cover). Una proposta di alto profilo, che nella ricchezza dei contenuti acclusi, completa la peculiare parabola di caduta e resurrezione della stessa Nicole. Ma anche un’occasione per ricordarci come, nella sua apparente struttura da film a tesi, L’amour violé sia prima di tutto racconto del riconoscersi in un’identità. Quella di genere, in primis, per una donna privata della sua integrità materiale dalla violenza e poi condannata dalla prassi di chi vorrebbe riconsegnare l’atto criminale al silenzio. Il doloroso percorso di Nicole passa infatti in rassegna un campionario di varia umanità che, di fronte alle sfide di una modernità forgiata nella violenza degli anni Settanta, mostra le debolezze delle vecchie categorie e la stoica resistenza del passato: quello per cui la donna e l’uomo sono tali solo se rispondono a precisi e predefiniti canoni.
Così, Nicole, donna emancipata, altruista (di lavoro è infermiera), proiettata verso il mondo, subisce con una certa insofferenza i dettami materni che la vorrebbero fasciata in abiti fiabeschi per aderire allo stereotipo della perfetta donnina da cartolina. Al suo fianco c’è il compagno Jacques, che sta definendo la sua mascolinità nel servizio militare – quello che lo “renderà uomo” – e che risponde alla violenza con l’orgoglio e la rabbia del “maschio” ferito. Esemplare in tal senso la reazione di fuga dell’uomo una volta appreso il segreto, la sua necessità di “restare solo” per riflettere, interrotta dall’urlo disperato di Nicole, che ha l’effetto di una scossa. Un grido che arriva dal fuori campo, da una dimensione di esclusione in cui la donna è stata relegata dal solipsismo dell’innamorato ferito e che testimonia invece la sua voglia di essere reimmessa nella dinamica di coppia. In questi piccoli dettagli si vede l’approccio non verticale, ma empatico della regista Yannick Bellon, che cerca di ricomprendere ogni punto di vista, affrontando la semplicità brutale della vicenda attraverso la complessità dei vari sentimenti in campo. Tutti sono quindi altro da sé, stretti fra le aspettative di un mondo che ha già chiuso le selezioni e la difficoltà mutevole del vivere, ancor più quando di mezzo ci sono la sessualità e la violenza. L’evento singolo si carica pertanto di una connotazione universale che lo rende fatto pubblico, occasione di riflessione collettiva e che per questo deve essere indagato in tutte le sue implicazioni: Yannick Bellon dona quindi piena visibilità allo stupro (scioccando chi si aspettava una trattazione ellittica), ma allo stesso tempo concede anche spazio al privato degli assalitori e dei loro parenti, per mostrarne le contraddizioni, le umane debolezze. Non c’è dubbio su chi siano le parti in causa, nonostante il chiacchiericcio del dibattito che confonde le acque: la direttrice morale del film è salda, ma la trattazione non è manichea e crea un’opera affetta da un continuo sentimento panico, dove a essere violata – come da titolo – è l’idea dell’amore stesso, costretto a dibattersi fra gli impervi sentieri delle categorie con cui si affrontano il mondo e il rapporto di coppia. Esemplare in questo modo come la focalizzazione della storia sia sempre ondivaga, alternata tra la metodicità dei fatti “giudiziari”, e il più complesso e cangiante spettro delle dinamiche tra Nicole e Julian, fatto di separazioni e riconciliazioni dopo lunghe e complesse vicende interiori e di coppia. Nella sezione degli extra, la stessa Bellon rievoca la lavorazione del film, il ruolo svolto da Claude Lelouch e la natura assolutamente pionieristica di una pellicola che sottraeva lo stupro da dinamiche drammaturgiche legate ai vincoli di causa-effetto (come nei rape&revenge americani) per diventare trattazione più complessa e lavorata anche sui ritmi lenti ma più intensi della narrazione e sull’uso espressivo del paesaggio. Lo spazio, dopotutto, è seminale anche in Goèmons, corto documentario pure presente nell’edizione, premiato a Venezia nel 1948, in cui si racconta la vita dei raccoglitori d’alghe nell’isoletta di Béniguet. Il che conferma quanto, trent’anni prima de L’amour violé, lo sguardo della regista fosse già attratto dalle vite al limite nei contesti più lontani.