Un uomo ricchissimo che impara a vedere con gli occhi chiusi per barare al gioco e arricchirsi sempre di più. Un bambino e un cigno vittime di bullismo e violenza. Un derattizzatore con le sembianze degli stessi roditori a cui da la caccia. Un intervento antiveleno contro un serpente mai esistito, forse sognato. Sono i plot delle storie firmate Roald Dahl che il regista texano Wes Anderson ha deciso di trasporre a livello cinematografico sottoforma di medio e cortometraggi, prodotti e distribuiti da Netflix. Non è la prima volta che Anderson attinge all’universo dello scrittore inglese: nel 2009 porta sullo schermo Fantastic Mr. Fox, opera in stop-motion e punto cruciale nella carriera del regista, che attraverso le vicende della volpe e della sua famiglia si rinnova esteticamente scoprendo la gioia dell’animazione totale e accentua le implicazioni politiche legate alla narrazione. Nel caso di La meravigliosa storia di Henry Sugar, Il cigno, Il derattizzatore e Veleno, Anderson riscrive con somma aderenza le storie di Dahl omaggiando lo scrittore fino a comprenderlo come personaggio narrante (interpretato da Ralph Fiennes).
A fare da apripista è il mediometraggio dedicato a Henry Sugar (Benedict Cumberbatch), ricco giocatore d’azzardo che, nella noia di una giornata ospite da amici altrettanto ricchi, scopre in biblioteca il resoconto del bizzarro incontro tra il Dott. Chatterjee (Dev Patel) e Imdad Khan (Ben Kinglsey). La narrazione di Dahl si sposta alla narrazione in prima persona di Sugar per spostarsi nuovamente a quella di Chatterjee e infine a quella di Khan, che racconta come dopo anni di pratica abbia imparato a vedere con gli occhi chiusi, accompagnandoci dall’Inghilterra all’India in un gioco di scatole metanarrative. Sugar decide di fare tesoro della lettura per imparare a vedere senza utilizzare gli occhi e applicare tale tecnica alle sue puntate al casinò, ma qualcosa, negli anni di pratiche meditative, lo porta a spostare il focus dei suoi interessi e a restituire agli altri piuttosto che accumulare per sé. Qual è il desiderio di un narratore nel dialogare con il mondo interiore di un altro narratore? È come se il punto di partenza di Henry Sugar e delle altre storie fosse la fine, quelle parole scritte giallo su nero, in corsivo, che riportano la genesi del racconto. È proprio la narrazione la vera protagonista di questi brevi audiolibri visivi: il layer narrativo si sovrappone marcatamente a quello visivo tanto che tutti e quattro i film potrebbero essere fruiti a occhi chiusi.
Noi come Henry Sugar vediamo senza vedere, nonostante le scenografie teatrali all’interno delle quali Anderson cala i suoi personaggi siano di una lievità e bellezza fiabesche, cornici dalla forte valenza pittorico-illustrativa organizzate in modo da rendere visibili i meccanismi di messa in scena di cinema e teatro. Alle tecniche teatrali Anderson attinge anche nell’indirizzare la recitazione di un eccezionale cast, tutto inglese, che si cimenta in doppi ruoli e che sovente affida l’azione unicamente al gesto, nell’assenza voluta di arredi e attrezzature sceniche. Meravigliosi artifici di evidenziazione della quarta parete che, lungi dal trascinare lo spettatore fuori dal dramma, al contrario ce lo incollano grazie alla naturalezza con cui viene costruito il discorso diretto in camera. Nell’omaggiare un tessitore di storie che più volte, direttamente o indirettamente l’ha ispirato, Anderson silenzia la N rossa della piattaforma che ha sistematizzato la parcellizzazione di offerta e fruizione, offrendoci la lettura visiva di storie che scorrono come in una raccolta di racconti.