La faccia d’angelo (sorridente o imbronciato), i riccioli biondi (in realtà una parrucca), le molteplici trombette, la bocca senza parole (si fingeva muto, in omaggio al cinema di pochi anni prima). E ancora: il fischio, l’ammicco e l’inseguimento innocuo e infantile al passaggio delle femmine, l’arpa celestiale (da cui il nome d’arte), ogni genere di oggetto estratto dalle tasche senza fondo di un impermeabile sporco e stropicciato. Harpo Marx era l’anima più poetica, iconoclasta (non a caso amicone di Salvador Dalì), anarchica e vitale dei fratelli più numerosi e geniali del cinema comico. Emblema del migrante disadattato, clochard perennemente «clandestino» del mondo. Buono con i buoni, cattivo e sgradevole con i cattivi e gli sgradevoli, sempre a proprio agio con gli “ultimi”, ai quali regalava sublimi pezzi all’arpa. A differenza della maggior parte degli emarginati chapliniani, Harpo prendeva sempre a schiaffi il potente di turno (o faceva un pediluvio nella sua limonata, o tranciava il suo sigaro, o tagliava le code al frac del datore di lavoro arrogante…).
Nel 1961 raccontò la sua storia vertiginosa e a rotta di collo in un’autobiografia, Harpo Speaks! (Harpo parla), che finalmente arriva in versione italiana (grazie alle edizioni Erga), curata da Martina Biscarini e con prefazione di Maurizio Nichetti. Si legge come un romanzo, evocativo-visivo-slapstick di verità, dunque si guarda scorrere come puro cinema harpiano, libertario, sgangerato, poetico, maledettamente divertente. Al netto di qualche refuso (ventricolo al posto di ventriloquo), il volume italiano è ricco di note, curato con passione e affetto, ed è dedicato alla memoria di Franco La Polla. Harpo ripercorre la propria vita dall’abbandono della scuola in seconda elementare (Educare me), fino al successo, l’incredibile e avventuroso viaggio in Unione Sovietica nel ’33 («da solo, con un’arpa, un bagaglio pieno di roba da palcoscenico, e due lettere per due persone che neanche conoscevo») e gli aneddoti sulle feste di Hollywood (Rose Hecht, moglie dello sceneggiatore Ben, lo definì pubblicamente «l’unico uomo normale di Hollywood»).
Harpo rivive – a parole – la propria storia “da peso massimo” del cinema e della vita insieme allo scrittore Rowland Barber, già biografo del pugile Rocky Graziano (Lassù qualcuno mi ama).
Abbandonò la scuola, perché veniva lanciato regolarmente fuori dalla finestra dai compagni bulli e antisemiti. La sua vera scuola furono piuttosto gli insegnamenti del nonno materno (l’unico ebreo osservante in casa Marx), da cui imparò il tedesco e i giochi di prestigio, l’arpa della nonna trovata tutta scordata in casa, il fratello maggiore e indisciplinato Chico (che, a sua volta, grazie al gioco d’azzardo imparò la matematica e, grazie al biliardo, le leggi della fisica), infine le strade periferiche di New York. A differenza dell’autobiografia del fratello Groucho (altro libro imprescindibile per gli aficionados dei Marx), Harpo Speaks! rivela un’umanità e un amore per la propria famiglia che prevalgono sulla ricerca della battuta: basti l’aneddoto sul padre sarto maldestro, là dove Groucho porta all’estremo gli elementi comico-esilaranti degli insuccessi di sartoria, maniche sbilenche, taglie da nano per i giganti e viceversa ecc., Harpo mette a fuoco soprattutto l’affetto di un padre che faceva di tutto e s’inventava sempre il modo per sfamare una famiglia allargatissima (tutti i santi giorni c’era una folla di parenti sconosciuti e bocche nuove in più da riempire). Ogni autobiografia rischia la deriva autocelebrativa o la summa di massime di vita e perle di saggezza, non è certo questo il caso (così come per quella di Groucho). Basti leggere la chiusa del primo capitolo: «Molti anni fa un uomo molto saggio di nome Bernard Baruch mi prese da parte e mi mise un braccio attorno alla schiena. “Harpo, ragazzo mio – disse – adesso ti dirò tre consigli, tre cose che ti dovrai sempre ricordare”. Il mio cuore balzò e, nell’attesa, fremevo: stavo per sentire la parola magica, quella che ti apre le porte a una vita ricca ed intensa. E me la stava per dire il Maestro in persona. “Sì, signore?” dissi. E lui mi disse le tre cose.
Rimpiango di averle scordate tutte e tre.».
Rileggere le sue parole, il suo sentire, la profondità sempre destabilizzante, mi ha fatto pensare, a volte, ad alcune descrizioni che Elie Wiesel dà del leggendario Chouchani (cfr. L’ebreo errante, ed. Giuntina): «Non riconosceva nessuna legge, nessuna autorità, né quella della comunità, né quella dell’individuo…» (p. 111). Si consiglia di affiancare ad Harpo Speaks!, la lettura di A pesca con Groucho di Irving Brecher e Hank Rosenfeld (ed. Sagoma), in cui compaiono molteplici aneddoti strepitosi dedicati proprio ad Harpo (su tutti: quello del ritrovamento su un aereo della sua mezuzah, l’oggetto rituale con una piccola pergamena rimandante alla Torah). Fu uno dei più grandi artisti del cinema (non solo comico) del Novecento. Impossibile non amarlo o non dire, parafrasando una famosa scritta su un muro del sessantotto parigino: «Oui je suis marxiste, tendance Harpo».
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