«Andare in discoteca era come entrare in chiesa» – Il doc di Sophie Fiennes su Grace Jones

Classe 1967, sguardo incandescente, volontà di ferro e curiosità senza limiti, Sophie Fiennes ha debuttato al cinema nel ‘98 con un corto, Lars from 1-10, in cui Von Trier spiega il decalogo del Dogma (che si può vedere qui). Già collaboratrice di Peter Greenaway sul set di Il cuoco, il ladro, sua moglie, l’amante (1989), nel 2006 filma Guida perversa al cinema (seguito da The Pervert’s Guide to Ideology, sempre interpretato dal filosofo Slavoj Žižek, nel 2014) e in mezzo Over Your Cities Grass Will Grow sull’artista Anselm Kiefer, presentato a Cannes nel 2010. Prima ancora, con Hover Street Revival (2002) si era avventurata a Los Angeles nella comunità di seguaci di Noel Jones, carismatico predicatore, che incidentalmente è anche il fratello di Grace Jones (sì, anche Sophie Fiennes ha fratelli noti: gli attori Ralph e Joseph, nonché la regista e produttrice Martha).

In Festa Mobile al Torino Film Festival 2017 – e nelle sale solo il 30 e 31 gennaio, con Officine Ubu – ha presentato Grace Jones: Bloodlight and Bami (cioè la luce rossa dello studio di registrazione e la farina con cui si preparano le tipiche focacce giamaicane, in un oscillare continuo tra mondo occidentale e caraibico). Non un santino stilish (zero cover di moda o nostalgia per gli ’80 disco pop), né un film concerto – anche se c’è una scelta accurata dei brani, scritti dalla Jones e già di per sé autobiografici, interpolati al di lei pedinamento, tra la preproduzione di Hurricane (2008), con un’apparizione del leggendario percussionista Uziah “Sticky” Thompson, la supervisione musicale del produttore Ivor Guest e le nottate nelle capitali internazionali. Non è neanche un biopic in senso stretto: piuttosto, una terapia personale tra i luoghi e i testi su cui ha costruito un’identità forte e liquida, un originale ibrido di palco curatissimo (a 16 mm), tra i costumi di Eiko Ishioka (Dracula di Bram Stoker) e i copricapi di Philip Treacy — il backstage e la gita familiare ripresa con camere digitali della cantante (oggi anche nonna) nella natía Giamaica. A ricostruire il puzzle, rievocare aspetti molto privati e dolorosi. Un’altalena di eccitazione e solitudine, aggressività scenica e superamento privato della rabbia. Una vera scommessa su se stessa, alla soglia dei 70 anni.

 

Come ha lavorato con Grace Jones?

Ho raccolto materiale su di lei per cinque anni, seguendola da vicino e imparando tantissime cose di lei che mi hanno poi permesso di comprendere il modo in cui concepisce la performance, il momento in cui va in scena e si esibisce davanti a un pubblico. Il lavoro che abbiamo fatto non ha riguardato nella fattispecie il palcoscenico, però la conoscenza che ho accumulato in tutto quel periodo mi ha poi permesso di girare con cognizione di causa le sequenze dei numeri cantati. Volevo assolutamente che il film si aprisse con Slave To the Rhythm: un brano così incisivo, famoso, con un’iterazione molto forte, che coniugasse anche il tema della canzone — la morte e la fanciulla — con la maschera e il numero dell’hula hoop, che la caratterizzano così tanto. Vorrei aggiungere che Grace è veramente una collaboratrice fantastica. Lo è stata con me, ma anche con Jean-Paul Goude (pubblicitario, art director, autore di sue storiche copertine e videoclip da Island Life a Slave To the Rhythm nonché compagno della Jones e padre di suo figlio Paulo, ndr), Keith Haring e tanti altri artisti con cui ha lavorato ed è sempre disponibile a sperimentare, creare, insieme agli altri, su se stessa, innanzitutto. Ha una profonda conoscenza di sé (nel film, tra le altre cose, si definisce “visual artist” e “gypsy”, zingara, ndr) e desidera mostrarsi nelle molteplici sfaccettature della sua identità e della sua arte. È un essere fluido, al di là dell’immagine androgina che ha sempre presentato, è stata una grandissima innovatrice, una controcorrente, anticonformista, che ha imposto delle novità assolute. Quando ti conquisti la sua fiducia si apre completamente. Non ha mai posto nessun tipo di divieto anzi, al contrario, una volta ho spento la macchina da presa e lei mi ha chiesto: «Perché non stai filmando?». Mi sembra che il ritratto che ne emerge, sia sul piano umano che artistico, sia veramente esaustivo.

Il film sembra molto legato al qui e ora. Durante le riprese qual era l’idea che guidava il suo occhio? È cambiata o si è confermata, al montaggio?

Mi piace lavorare sempre sul confine, se esiste, tra realtà e finzione, nel cinema. In questo caso si impone la regola di filmare al presente, e sempre nel registro del qui e ora, che di per sé è già finzione. È difficile essere concisi, su questo argomento. A me interessava creare un documento su di lei e non ho fatto altro che continuare a filmare, tenendo sempre presente la volontà di cogliere il massimo della qualità possibile in ciascun momento che mi si presentava davanti, in modo da avere poi un’ampia scelta di immagini. Una volta al montaggio ho adottato il punto di vista del patologo che cerca di esaminare tutto il materiale, facendone una vera e propria biopsia e cercando delle connessioni. Quando si lavora senza un copione, come in questo caso, in un documentario è molto stimolante, perché ricevi una serie di sollecitazioni. Però poi ti ritrovi un materiale enorme da esaminare e devi avere un’estrema attenzione nel momento in cui è quel materiale a guidarti, più che un’idea. Devi capire dove il materiale è più forte, dove rappresenta una tensione tra i momenti privati che hai colto, seguendo la persona, e i testi delle canzoni, per esempio. Come il privato e il pubblico entrano in contatto e interagiscono. Quello che il materiale può fare è molto più interessante rispetto a un programma di lavoro precostituito. Questo naturalmente impone di essere sempre apertissimi e disponibili a cambiare ogni qual volta ci si imbatte in un concetto forte. E poi naturalmente si procede come per la finzione: getti un seme e vedi se cresce, come cresce, dove arriva, giocando costantemente tra la vita reale e la finzione, la messinscena, e la realtà dei testi dei brani musicali.

 

Grace Jones è anche stata la cattiva di un Bond movie, Agente 007 Bersaglio mobile (1985) ed era una delle cose migliori di quel film non memorabile. È stata sottoutilizzata nel cinema di finzione?

Penso proprio di sì. È così cinematografica, solo tramite la forza della sua presenza. Sulla rivista American Cinematographer ho letto l’intervento di un critico francese che si interrogava sul significato di “one man show” e su quale sia il motore del cinema. Spesso si dice che un film è fatto di trama, di personaggi, ma in realtà l’essenza stessa del cinema è la fascinazione che un personaggio porta in se stesso. È quello che fa lei: ha una presenza, un profilo, i tratti del volto, una muscolatura facciale assolutamente bressoniana ed è davvero un peccato che non sia stata più spesso davanti alla macchina da presa. Non com’è sul palco ma come se stessa, grazie a questa alternanza costante tra l’essere una donna tutto sommato semplice e una grandiosità che va oltre se stessa: come nella scena della stanza d’albergo di Parigi, in cui sorseggia champagne a colazione: ti fa venire in mente Edith Piaf, per come riesce a trasmetterti la solitudine dell’artista grandiosa. Quasi si riesce a sentirne l’odore.

Da dove nasce l’idea del film?

Il progetto è partito da Grace, che aveva visto il mio film su suo fratello, un pastore pentecostale, Hover Street Revival (2002). Le era molto piaciuto. Anzi, per la precisione, mi ha detto che le piaceva il profumo, l’odore di quel film. Era un film fondato sull’osservazione, complesso ma in cerca di una leggibilità, che lei ha colto. Siamo diventate amiche e circa un anno e mezzo dopo mi ha chiamato per dirmi che aveva un’altra richiesta per un documentario su di sé, ma che non le interessava farlo alle condizioni in cui le era stato proposto. Quindi mi ha proposto di farlo insieme. Ovviamente ho accettato, a condizione che non venisse coinvolto nessuno che ci facesse domande, e che fossimo noi le responsabili, in totale autonomia. Perché solo così forse qualcosa sarebbe potuto accadere. È stato un esperimento. Grace, come ho detto, è una collaboratrice estremamente creativa, e quando sperimenti non sai come funzioneranno le cose: fa parte del piacere creativo, appunto. In quanto regista di documentari la cosa più interessante per me è che lei abbia deciso di mostrarsi completamente. Una decisione radicale, per lei. Non ha mai cercato di controllare quello che stavo vedendo o di gestire se stessa davanti alla macchina da presa. Ovviamente è sempre stata un minimo performativa, cosa che sa fare in modo magnifico. Se entrasse in questa stanza, ora, saprebbe essere all’altezza della situazione. Lo fa in ogni momento della sua vita, credo che nel film questo si veda. In questo senso lei è l’eccezione che conferma un dato universale: stiamo sempre tutti recitando. Ci viene insegnato a farlo.

 

Quando ha avuto inizio il progetto?

Grace mi ha chiamato nel 2005, e dopo circa cinque anni mi sono resa conto di avere il materiale necessario per creare un affresco, un lavoro che è come mettere insieme un’orchestra con tante tonalità. Sapevo di avere una grande varietà, ma le ho detto che non avrei potuto finire quel film senza inserire anche le sue performance. E che non avrei potuto girare con una macchina a mano, ma che volevo crearle in modo appropriato, con il giusto budget, per poterle mettere in scena. Ho aspettato molto tempo per poter realizzare la performance teatrale nei modi e nei tempi in cui voleva produrla lei. Ma oggi l’industria musicale lavora quasi esclusivamente nei festival e nei grandissimi stadi – Grace stessa ha partecipato all’Hollywood Bowl, un paio di volte — mentre in questo film lei cercava un’intimità col pubblico. Quindi mi sono detta che avrei dovuto ricreare quel tipo di spettacolo teatrale: qualcosa che fosse il suo sogno, creato appositamente per il film, e che non sarebbe accaduto mai più. Ho ascoltato molto le sue esigenze e idee per la performance, poi c’è voluto tempo per trovare i finanziamenti e portare a termine tutto. Ci siamo prese anche molti rischi: avevamo solo due serate possibili per girare, all’Olympia Theatre di Dublino, e lei non ci aveva mai messo piede. Le ho chiesto se volesse fare delle prove, mentre avrei lavorato per una settimana con la light designer Sinead McKenna e il direttore della fotografia Remko Schnorr alla costruzione della messa in scena per ogni canzone. E Grace ha detto che le sarebbe piaciuta una luce semplice, ma che potesse cambiare. Ho lavorato nell’ambito della danza e ho seguito un workshop di dance lightning con Jennifer Tipton, che lavora con molte compagnie di danza di New York, quindi ho un po’ di esperienza su come creare uno spazio e cambiarne la luce in modo semplice ma efficace, evitando gli effetti di luce vorticosi e intermittenti. Per me si trattava piuttosto di dare una punteggiatura alle canzoni, di enfatizzare l’aspetto narrativo e anche di portare un senso di musical. Mi sono ispirata al numero di Amado mio di Rita Hayworth in Gilda: in quel film i suoi movimenti sono minimi ma vedi tutto il corpo e sei in grado di leggerli. Volevo dare a Grace spazio per questo, perché è un’artista molto fisica e insieme alla voce straordinaria usa anche il suo corpo. Ecco perché volevo anche che fosse il più possibile nuda, perché è anche la situazione che lei preferisce. Cercavo le condizioni ottimali perché si potesse esibire, insomma. Lei non ha voluto fare prove. Solo alla fine lo stage manager mi ha chiesto di indicare dove volevo le entrate. E lei è arrivata sul palco e ha fatto il suo show. Le piace quell’adrenalina, essere “nel momento” della performance, in ogni secondo, sentire cosa fa il pubblico, la band, vivere quel presente di “super vita”.

 

Come la ha influenzata questo processo, in quanto donna e artista, avendo passato così tanto tempo con lei?

Ho imparato a discutere in maniera anche violenta con lei. Ho dovuto farlo, per poterle tener testa. Grace, però, è anche una persona molto orientata verso la famiglia. La sua immagine pubblica è solo una parte di lei e della sua performance, ma non la riassume completamente. Da donna so che molte donne la trovano intrigante. A chi mi ha fatto notare «pensa se l’avessi filmata 30, 40 anni fa?», io rispondo «ma stai scherzando? Adesso, alla sua età, è così interessante, proprio per il fatto che ha attraversato quei decenni, per le scelte che ha fatto».

Nel film Grace Jones afferma che nei suoi anni ruggenti «andare in discoteca era come in chiesa»: come avete lavorato su quest’analogia?

Ho incontrato Grace perché prima ho girato un film sulla chiesa. E lei mi ha chiesto di fare questo film dicendomi «devi capire da dove vengo». Sono molto affascinata dalla chiesa come evento performativo, a ciò che può dire in termini di esibizione, improvvisazione: lo stile della predicazione, la musica gospel, come produce una specie di esplosione di sinapsi, di neurosinapsi autoindotta e allucinogena. Rilevo che a livello psicologico ci sono degli intrecci tra i due ambiti: la scena nel night club di Mosca in cui lei direbbe che è andata «coco loco», assomiglia a una performance alla Pina Bausch. Il modo in cui si muove, in cui entra in quello slow motion, esprime quello che lei dice sulla disco: «Ti perdi per trovarti». La stessa cosa succede in chiesa: devi perdere te stesso per poterti ritrovare. È stato molto importante per il film. Tutti insistono sulla Grace Jones nel periodo d’oro della disco music, regina delle disco gay, ma che tipo di materiali avresti visto? Solo foto a uso stampa dello Studio 54, con Bianca Jagger, quel vip e quell’altro, tutti quei fuochi artificiali attorno alla promozione del locale. Niente di profondo. Mentre per Grace qui si trattava di andare molto più in profondità. Quel passaggio sulla disco come chiesa è stato molto importante per portare il pubblico oltre la sua dimensione disco, informarlo di più.

 

Nessun’altra artista come Grace Jones ha una totale coincidenza tra la narrazione e il corpo. È stato difficile da riprendere?

Non ha mai cercato di controllare niente, come ho detto. Mio figlio, che ha 7 anni, mi ha detto: «La cosa che mi piace di Grace è che mi permette di guardarla nuda». E quando gliel’ho detto lei mi ha risposto: «Oh, che carino, non sa che tutti mi vedono nuda!». Lei è molto nuda, quindi non rappresentare questo suo lato avrebbe voluto dire mancare, perdere qualcosa che riguarda il senso di potere che prova nell’esserlo. Molte persone si sentono deboli e vulnerabili da nudi. Lei si sente potente. La cosa curiosa è che si preoccupa molto di coprirsi la testa, interessante inversione. Il corpo parla e per questo era importante nel mettere in scena i numeri cantati far vedere il linguaggio del corpo, senza disturbarlo con altri elementi.

 

Jones è un’icona della fluidità sessuale e il film è tutto sulla sua costruzione di identità. A un certo punto nel film lei afferma che «anche gli uomini dovrebbero sperimentare la penetrazione». Quanto a fondo avete esplorato il tema del patriarcato?

Credo che il mondo si divida tra performer e persone che non lo sono. Se lo sei, come lei lo è, anche quando non sei in scena stai perennemente immaginando te stesso. Me ne sono resa conto al montaggio, notando la sua consapevolezza quando dice «Adesso divento tribale» o «Mi hai fatto diventare come una tenutaria lesbica di bordello» o «Sono una stronza grandiosa»: riflette costantemente e passa di continuo da un ruolo a un altro. Riguardo il passaggio sulla penetrazione, ho semplicemente percepito che la Giamaica, l’ambiente da cui lei viene, è una cultura molto patriarcale, per cui per il nonno di parte paterna nessuna donna era all’altezza dei suoi figli, e nel film apprendiamo di una figura familiare che abusava di tutti. Quello che mi piace è che Grace abbia fatto molto di più in termini di esplorazione delle fantasie maschili di quanto abbia fatto con lei Jean-Paul Goude con le sue. Era consapevole di qualcosa di molto più radicato nella sua natura. Trovo anche divertente che essere temuti è qualcosa che nella storia e nella mitologia ha già dei tratti femminili. Basta pensare alle Arpie o a Medusa: l’archetipo della donna è ferino, mentre l’idea della femminilità profumata è qualcosa di relativamente recente. Lei è una donna archetipica, furiosa, potente, e credo che sia una cosa fantastica. Qualcuno mi ha chiesto cosa penso del caso Weinstein: credo che di Grace si possa apprezzare soprattutto la capacità di essere brutale. La volontà di esserlo, di dire no, di difendersi, e anche di essere sgradevole, perché non è un attributo esclusivamente maschile. Mi piace il fatto che nel film si veda che è lei a riappropriarsi della terra degli antenati: il padre le consegna la terra sulla quale la casa di famiglia è crollata. È una situazione molto wagneriana, dove lei si ritrova a essere la valchiria. La terra viene restituita a lei e non ai suoi fratelli maschi. Sarà lei a ricostruire la casa dei Jones.

Grace Jones ha anche dichiarato alla CNN di essere stata molestata sessualmente dal produttore del film La guerra di Gordon (1973). Pur sottolineando la debolezza della posizione di una giovane donna che si trova a fronteggiare chi nell’industria ha l’ultima parola su un film, ha ricordato come lei in quell’occasione gli lanciò lo champagne in faccia e se ne andò.

Sì, è vero. Ma ancora prima ricordo un episodio di quando la sua famiglia si trasferì dalla Giamaica a New York. Lei, che aveva 13-14 anni, e la sorella, erano majorettes della squadra della scuola. Un giorno i ragazzi si offrirono di accompagnarle a casa in macchina, poi invece le portarono in una zona appartata. Ha raccontato che in quel momento si rivelarono utili i loro bastoni da majorette. Credo che ogni attrice di Hollywood dovrebbe averne uno nella borsa, per scaricarlo addosso a chi vuole prenderla con la violenza. O magari anche per penetrarlo.