Compie quarant’anni Stop Making Sense di Jonathan Demme, pietra miliare dei documentari rock. Mette a fuoco in maniera spettacolare ed esaustiva i Talking Heads, tra le band seminali che hanno attraversato gli anni ‘70 e ‘80, a partire dal trittico di concerti che essi tennero al Pantages Theatre di Hollywood nel dicembre 1983: là, insieme a un ensemble di eccezionali musicisti a supporto, si esibirono David Byrne, Tina Weymouth, Chris Frantz e Jerry Harrison all’apice del loro successo. Per celebrare l’anniversario, il film viene riproposto in versione restaurata in 4K, con colonna sonora completamente rimasterizzata dal chitarrista Harrison, che è stata presentata lo scorso anno al Toronto Film Festival e che nei giorni scorsi ha fatto un passaggio alla Festa del Cinema di Roma. Abbiamo avuto modo di intervistare Jerry Harrison, impegnato in un tour promozionale italiano del film. (In apertura Tina Weymouth, Ednah Holt, Lynn Mabry, David Byrne, Alex Weir Credit: By Jordan Cronenweth. Courtesy of A24).
Stop Making Sense viene considerato uno dei migliori film musicali della storia. L’idea iniziale fu del regista o della band? E come fu il rapporto tra voi e Demme?
Credo che tutti nella band riconoscessimo che lo show aveva una componente visiva molto importante e si sviluppava seguendo una sorta di arco narrativo, il che lo rendeva adatto a essere filmato. A quel tempo, Jonathan Demme e il suo caro amico Gary Goetzman – che sarebbe poi diventato il produttore del film – avevano assistito a un nostro live ed erano venuti da noi con la proposta di filmarlo. Demme non era ancora famoso come sarebbe diventato in seguito: aveva realizzato Una volta ho incontrato un miliardario e alcuni film prodotti da Roger Corman. Mentre ci stavamo preparando a girare, Demme lavorava a una pellicola con Goldie Hawn, intitolata Swing Shift – Tempo di Swing, e spesso si assentava. Per certo, proprio da lì ha preso il via un periodo molto produttivo per lui, con film accolti bene anche dal pubblico: io stesso ho preso parte alle musiche di Qualcosa di travolgente con Jeff Daniels e Melanie Griffith, un lavoro divertente, producendo i Fine Young Cannibals che ne hanno firmato la colonna sonora. Successivamente, Demme ha girato film di successo come Una vedova allegra… ma non troppo e, soprattutto, Il silenzio degli innocenti…Insomma, stava per esplodere e affermarsi come uno dei registi più quotati di Hollywood. Quando lavorò con noi, ancora non aveva fatto il botto, ma si capiva che lui e Gary sarebbero arrivati lontano, in quanto era evidente che adorassero lavorare insieme e fossero autentici amanti della musica. Nei film di Demme la musica è sempre in primo piano e non sullo sfondo; talvolta capita addirittura che un dialogo venga interrotto per lasciarle spazio, e con questi presupposti per noi è stato naturale fidarci del regista. Facevamo lo stesso show ogni sera, sempre allo stesso modo; ma Jonathan, da grande uomo di cinema qual è, ogni volta indicava gli aggiustamenti da fare a livello visivo (le luci in un determinato punto del palco, per esempio), e noi seguivamo i suoi consigli. A mio parere, una delle caratteristiche migliori di Stop Making Sense è che mostra la nostra umanità, quanto stavamo bene e quanto ci divertivamo a lavorare insieme: i momenti in cui ballavamo, gli scambi di sguardi d’intesa, tutto raccontava di quanto ognuno di noi fosse essenziale per la buona riuscita dello spettacolo. A differenza del nostro primo periodo, dove ci limitavamo a suonare sotto i riflettori, qui ogni aspetto rilevante veniva valorizzato.
Foste influenzati dalle riprese?
All’inizio no. Il primo giorno non abbiamo filmato granché, perché bisognava provare luci e telecamere. Successivamente abbiamo suonato con le rotaie del carrello dolly in diverse posizioni, perché non volevamo svuotare troppo le inquadrature, ritenevamo che l’effetto dovesse essere il più vicino possibile a quello di un concerto tradizionale. A ogni modo, eravamo già abituati a suonare con i roadies che sfrecciavano dappertutto con luci e attrezzature, tanto che l’idea di avere qualcuno che ci riprendesse non è stata per noi sconvolgente. Gli show non sono stati differenti più di tanto dal solito…ci siamo soltanto impegnati per suonare particolarmente bene davanti alle telecamere. Abbiamo scelto separatamente la musica e le immagini migliori ed è per questo che non sempre nel film sono sincronizzate. Al momento di lavorare su questa nuova edizione ci è stato detto che potevamo sincronizzare suono e immagini digitalmente ma abbiamo preferito lasciare tutto com’era. Siamo stati fortunati a ritrovare il girato originale e a poterlo scansionare in alta definizione, il suono e le immagini sono meglio di prima e chi ha visto i concerti all’epoca è entusiasta dell’idea di rivederli. Tutto sembra più intenso e i dettagli si percepiscono più nitidamente.
Il restauro video e audio ha migliorato ulteriormente la fruizione del film. Che effetto le fa rivederlo oggi?
Fra i membri della band sono io ad aver curato la nuova edizione, e facendolo passo dopo passo non lo percepivo mai come un film unico: lavorare sulla singola canzone, a volte sul singolo frammento, è un po’ come produrre un album… Quando l’ho finalmente visto in formato Imax (70 mm, ndr) al Toronto Film Festival, è stato elettrizzante.
Cos’hanno rappresentato i Talking Heads sulla scena musicale degli anni 70 e 80?
La nostra idea era quella di proporci nella maniera più onesta possibile. Eravamo tutti intelligenti e talentuosi; ovviamente David (Byrne, ndr) aveva qualcosa di speciale, scriveva lui le musiche e testi che sono qualcosa di unico. Negli anni è diventato un musicista ancora più completo, ma credo abbia perso quel modo selvaggio di fare arte che lo contraddistingueva in principio; un atteggiamento che in Stop Making Sense ancora si trova, mentre un lustro più tardi già era perduto. Ritengo che l’essenza della musica punk sia un po’ questa: esprimi la tua rabbia con i mezzi che hai, poi col tempo la tua abilità cresce ma perdi quell’istinto, quell’innocenza che avevi inizialmente.
Da produttore, ha contribuito a lanciare gruppi come Violent Femmes, Foo Fighters, Fine Young Cannibals e Crash Test Dummies. C’è una band contemporanea in cui rivede la creatività senza limiti dei Talking Heads?
Alcuni anni fa, prima del Covid, ho prodotto una band chiamata Le Butcherettes. Sono davvero incredibili, la cantante Teri Gender Bender è strepitosa. Sono molto orgoglioso del loro video Spyder Waves…Credo che oggi la musica abbia un ruolo diverso nelle vite delle persone rispetto al passato, rimanga più sullo sfondo. Un tempo, per contro, capitava di aspettare trepidanti il giorno di uscita di un album in vinile per correre a comprarlo: avevi in mano questo disco così grande e con una copertina tanto bella (a dire il vero non erano tutte bellissime, ma avevano il loro fascino), e te lo ascoltavi e riascoltavi innumerevoli volte con gli amici. Con i cd questo non succede, non mi è mai capitato di riascoltare un cd dopo averlo ascoltato la prima volta, in parte per la lunghezza maggiore, che ti stanca. Allo stesso modo nessuno risente due volte di seguito una playlist di Spotify, che ascolti quando fai altro invece che concentrarti su di essa. Lo trovo deludente, ed è per questo che i concerti oggi sono così importanti: sei lì per la musica, ti concentri sulla musica e fai in modo di avere l’esperienza migliore possibile, magari anche solo cercando i posti con ma visuale più apprezzabile. Per questo sono contento di aver vissuto quei tempi, quell’entusiasmo. Credo che negli anni ’60 e ’70 i musicisti fossero i leader di una cultura…basta pensare che i Beatles e Bob Dylan erano più importanti di John Kennedy, erano loro a influenzare il pensiero di moltissime persone. Anche oggi succedono cose terribili e sicuramente vengono scritte canzoni che le riguardano. Ma c’è così tanta musica e il computer la rende accessibile, generando il rischio di chiuderti nella bolla di ciò che interessa soltanto a te. Una volta, per esempio, c’erano meno giornali e ti confrontavi con una mole inferiore di notizie, ma con più punti di vista diversi dal tuo. La rete smussa tutti gli spigoli e quando ti fa arrabbiare è perché le piattaforme sono progettate più per suscitare una reazione che per far pensare. E in tutto questo il ruolo della musica è quello del sottofondo.