Jeanne Moreau: femme fatale qui m’fut fatale

È probabilmente Louis Malle il primo regista di cinema a cogliere nella giovane Jeanne Moreau l’insieme di un volto misterioso e spesso enigmatico e i gesti veloci, frettolosi, pieni di energia o irrequietezza. Lo fa contenendoli visivamente, soffocandoli dentro storie ed inquadrature buie e affollate di neon e di musica che squarciano ogni superficie. Siamo nel 1959 quando Malle offre alla quasi trentenne Jeanne Moreau il ruolo della protagonista in Ascensore per il patibolo (in apertura un’immagine tratta dalla pellicola). Primo film di grande impatto e di successo internazionale (ma aveva già interpretato una decina di titoli dal 1949, tra cui Grisbì di Jacquest Becker e La regina Margot di Jean Dréville, dopo il successo sulla scena, la Comédie-Française, le numerose partecipazioni al festival di Avignone), e prima vera prova d’attrice a suo modo sensuale e a suo modo raffinata. Perché non c’era nulla di convenzionale nella recitazione di quest’attrice, divenuta il simbolo di un’epoca ribelle e vibrante, che sapeva fare proprie storie destinate a diventare universali. In ogni personaggio viveva una donna fiera e libera, dalle mille sfumature psicologiche, tutte da intuire sotto gli occhi grandi di velluto. Subito dopo viene Les amants, sempre di Malle, film crudele, disegnato su di lei e su quella capacità di interpretare il silenzio che è dono di pochi. Malle le affiderà i ruoli centrali in Fuoco Fatuo (1963) e Viva Maria! (1965), ma nel frattempo il suo talento arriva lontano e seduce registi come Roger Vadim, Michelangelo Antonioni, Peter Brook. Ognuno scoprendo abilità, pieghe sempre nuove del suo essere attrice.

Les Amants

Diventerà presto uno dei simboli della nouvelle vague (accanto ad Anna Karina), grazie a François Truffaut e al suo Jules e Jim (1962), film scritto su di lei, e realizzato con la leggerezza della gioventù. Un film “terribile” (come lei stessa lo ha definito), che diventa manifesto di una scelta di libertà radicale ma impossibile. Jules e Jim probabilmente non ci sarebbe senza Moreau, e con esso Il processo di Orson Welles e Eva di Joseph Losey, tutti usciti nello stesso anno e ispirati ad un’attrice che più di altre ha celebrato il cinema con il suo talento. I suoi personaggi esprimono l’amore per la vita, la trasgressione mai fine a se stessa, il dolore appena accennato, eppure sempre presenta nell’espressione immancabilmente malinconica e annoiata.  Moreau ha saputo attraversare il cinema senza mai fare distinzione di nazionalità o di ricchezza produttiva. Tra l’Europa e gli Stati Uniti si consuma la stagione più eclettica della sua carriera: Il diario di una cameriera di Luis Buñuel e Il treno di John Frankenheimer (1964) Falstaff di Orson Welles (1964), Il diavolo ha riso (1966) di Tony Richardson, La sposa in nero, ancora di Truffaut, dove il suo ruolo di donna carismatica si carica di venature mèlo fredde e intense come non si era mai visto.  Impossibile ricordare tutti i suoi film, ma impossibile dimenticare la sua generosità ad ogni apparizione. Gli ultimi fuochi di Elia Kazan (1976), Querelle di Rainer Werner Fassbinder (1982), Fino alla fine del mondo di Wim Wenders (1991), Il tempo che resta di François Ozon (2005), Disengagement di Amos Gitai (2007), Visage di Tsai Ming-Liang (2009), Gebo e l’ombra di Manoel De Oliveira (2012). In ognuno di questi film, anche se per brevi apparizioni, c’è la storia di un’attrice e di una donna che ha vissuto i set con curiosità e infinita passione, come se il cinema fosse una missione senza fine. Sarebbe bello vedere i suoi unici due film da regista Lumière – Scene di un’amicizia tra donne (1975), sui retroscena del cinema parigino e L’adolescente (1978), che, nonostante la sua celebrità, furono presto dimenticati. “Elle avait des yeux, des yeux d’opale / Qui me fascinaient, qui me fascinaient / Y avait l’ovale de son visage / De femme fatale qui m’fut fatale”.

 

Querelle