È stato un regista dalla carriera bizzarra e discontinua, Tobe Hooper. Una carriera fatta di capolavori che si sono inseriti a pieno titolo nella storia del cinema dell’orrore, ma anche una carriera in cui hanno trovato spazio produzioni meno fortunate, episodi poco illuminati dalla creatività. Si passa così da testi fondamentali degli anni Settanta quali Non aprite quella porta (1974) e Quel motel vicino alla palude (realizzato due anni più tardi) a produzioni meno ispirate nel decennio seguente, soprattutto quando l’autore cerca di districarsi nei territori più dichiaratamente a contatto con la contaminazione dei generi: l’horror mischiato al fantastico, alla fantascienza, alle minacce provenienti da altri mondi. Prima di tornare a sfornare immagini splendide, inquietanti e terrificanti negli anni Novanta, basti pensare a The Mangler – La macchina infernale (1995).
Ma in questa carriera certamente non lineare, Tobe Hooper ha il grande pregio di avere sempre percorso la strada della ricerca, della sperimentazione rigorosa all’interno di un genere (o di più generi ravvicinati) destinato al grande pubblico, e soprattutto alle platee giovanili attratte dalle visioni estreme dell’horror. E Hooper è un nome dal quale non si può prescindere parlando di questo tipo di cinema. Ha regalato alcuni tra i momenti di più efferata visionarietà e a proposito delle sue composizioni macabre ha sempre ricordato il suo interesse per i quadri di Goya spiegando che iniziò ad avere visioni simili fin da bambino e in seguito da ragazzo, particolarmente in due periodi difficili della sua vita: ammalato, da bambino rimase spesso a letto e lesse fumetti horror; e a 17 anni, in seguito a un grave incidente automobilistico, fu costretto a restare in una clinica per parecchi mesi elaborando ancor più la sua fantasia verso allucinazioni e soluzioni formali che sarebbero state inserite nei suoi futuri lavori. Prima di approdare ai lungometraggi di finzione, Hooper (nato a Austin nel Texas il 25 gennaio 1943 e scomparso il 26 agosto 2017 a Los Angeles all’età di 74 anni), ha effettuato studi di cinema e ha trascorso un lungo periodo di apprendistato come capo operatore e montatore alla televisione americana, ha realizzato spot e una ventina di documentari per il Ministero dell’Educazione. Ma è stato il suo film d’esordio, Non aprite quella porta (in originale The Texas Chainsaw Massacre, in cui si fa riferimento sia al luogo dove il film è ambientato sia alla presenza della “celebre” motosega con la quale si compie gran parte degli omicidi), a dargli popolarità e riconoscibilità – anche se una attenta lettura della sua filmografia porta a scovare un film del 1969, Egg-Shells. Qualcosa di nuovo stava accadendo nell’horror. E Hooper firmò un pezzo di quella rivoluzione estetica (per la cronaca, alla base di Non aprite quella porta ci sono le imprese del killer necrofilo Ed Gein, che seminò terrore negli anni Cinquanta) ottenendo riconoscimenti (premio della critica al Festival di Avoriaz nel 1976; Palma d’oro al Festival di Anvers) e soldi (negli Stati Uniti nei primi due mesi di programmazione incassò quasi cinque milioni di dollari; in Inghilterra nel 1976 si piazzò al terzo posto al box office).
Quelle visioni saranno confermate da Quel motel vicino alla palude, un altro capolavoro in cui si mischiano orrore, ironia, citazioni; in cui il regista è anche co-autore della colonna sonora (come nel primo film); in cui recita un Robert Englund non ancora diventato Freddy Kruger. Il cinema di Tobe Hooper si fa così, nel corso degli anni, segno d’autore riconoscibile. E il regista che ama sì il George Romero di La notte dei morti viventi ma anche David Lean e Federico Fellini, prosegue la sua carriera fra visioni horror contaminate con il culto dei vampiri (Le notti di Salem, 1979), il thriller (Il tunnel dell’orrore, 1981), le presenze demoniache che si manifestano attraverso il tubo catodico (Poltergeist – Demoniache presenze, 1982, prodotto da Steven Spielberg con gli effetti visuali della Industrial Light & Magic), prima di approdare al fanta-horror catastrofico (Space Vampires, 1985, con la bellissima Mathilda May) e a quello che trova vita a partire da un remake di fantascienza degli anni Cinquanta sull’invasione di extraterrestri (Invaders from Mars, 1986). Sono gli anni che precedono un nuovo, fondamentale capitolo nella filmografia di Hooper, ovvero Non aprite quella porta – Parte 2 (1986). Si ritrovano i personaggi del precedente film, a partire dal mitico Leatherface, “Faccia di pelle”: texano, cannibale, macellaio, molto attaccato alla famiglia di morti-viventi, gran manovratore della sega elettrica. Il film è ancora più visionario e barocco, ironico e funereo. Hooper ritrova una sicurezza filmica rara e chiama a combattere la famiglia di texani cannibali addirittura Dennis Hopper. I trucchi orripilanti sono del mago Tom Savini. Hooper ha spesso portato sullo schermo romanzi o racconti di Stephen King, da Le notti di Salem (che produttivamente è un film per la tv della durata di 184 minuti, mentre nelle sale fu fatta circolare una versione di 107 minuti) a The Mangler, che fu il suo ritorno al lungometraggio dopo alcune parentesi in film a episodi. Si ricordano il bellissimo Eye, dove il terrore assume dimensioni bibliche, inserito nel film Body Bags-Corpi estranei (1993, gli altri capitoli sono di John Carpenter), e quello inserito nell’esordio della serie tv Freddy’s Nightmares, basata sul personaggio di Freddy Kruger, intitolato No More Mr. Nice Guy (1988). Tra le perle dell’ultima parte della carriera di Hooper ci sono La casa dei massacri (Toolbox Murders, 2004), ovvero i lati più oscuri e devastanti di Hollywood nascosti nel corpo di un hotel (un’altra abitazione, costruita su un sito abitato da presenze malvagie, in questo caso i djinn della tradizione araba, sarà la protagonista del film che nel 2013 chiude la filmografia del cineasta texano, Djinn, prodotto dagli Emirati Arabi Uniti e girato nel paese del Golfo), e Dance of the Dead (2005), esplosione horror visiva e sonora, uno dei due episodi da lui diretti per la serie tv Masters of Horror.