L’irresistibile consapevolezza di sé e del mondo di Monica Vitti

La notte

“La prima volta che l’ho vista è stata a teatro, Feydeau credo. Monica aveva un ruolo brillante. Era irresistibile. Formidabile e anche molto bella (…) Monica veniva da esperienze classiche, non aveva ancora mai interpretato qualcosa di moderno. E invece lei è un personaggio moderno, nel cinema come nella vita. Sarebbe stato un vero peccato non farle fare qualcosa di moderno come lei sentiva di voler fare nel cinema…” Così Michelangelo Antonioni raccontava perché aveva voluto a tutti i costi Monica Vitti per L’avventura. Una donna che viaggiava con decenni d’anticipo, con una consapevolezza reticente di sé e del mondo. Alvise Sapori che la conobbe ai tempi dell’Accademia d’Arte Drammatica la percepiva come “pudica, recitante, analitica, volentieri ridente e poco esposta. E attrice. E diva”. La musa dell’incomunicabilità a quel tempo era un’attrice di teatro formidabile, appassionata del comunicare, del rapportarsi a un pubblico, lei così parlante avrebbe conosciuto il successo mondiale grazie a personaggi quasi afoni. In lei era naturale l’attitudine per la commedia: quei tempi perfetti, quell’attenzione crudele agli esseri umani, quella capacità di conservare (all’apparenza) un animo puro. Monica Vitti attraversava le commedie con un distacco dal suo personaggio (che nella rappresentazione spesso recita, finge, di essere altro) che sta a metà fra lo sguardo critico, l’innocenza e la severità classificatrice dell’entomologo. Pochi lo ricordano ma nel 1964, dopo Deserto rosso, con una carriera cinematografica esaltante, Monica Vitti accettò l’offerta di Zeffirelli e divenne Marilyn Monroe in Dopo la caduta, il testo teatrale di Arthur Miller. Due anni di repliche (Marilyn era morta da pochi anni), tantissimo da perdere. Un trionfo, ma un impegno fisico e psicologico mostruoso, con Arthur Miller che la vide a Napoli e si commosse. Solo Monica Vitti poteva vincere una sfida così estrema perchè era grandissima nel rappresentare/rappresentarsi. (In apertura un’immagine tratta da Deserto rosso)

 

Monica Vitti e Michelangelo Antonioni
Qui delle dichiarazioni di Monica Vitti. Le prime due sono tradotte da Cinéma 73, n. 181, novembre 1973, le altre sono state estrapolate da Monica Vitti di Laura Delli Colli, Epoca, Il Messaggero, L’Europeo, Positif.

 

Il mio lavoro è uno psicodramma
Io non sono né esattamente come nei film di Antonioni né esattamente come nei film comici. Sono un’altra cosa ancora, fortunatamente. Era fantastico girare con Antonioni. Durante le riprese de L’avventura ho anche girato un film sul film, con una piccola cinepresa, e l’ho montato io stessa. Non l’ho mai fatto con altri registi. L’avventura, Deserto rosso erano molto legati a me, alla mia vita. Da quando non gira più con me, Antonioni non parla più delle stesse cose: racconta storie di uomini, con altri problemi, non parla di donne.

 

Tutto il mio lavoro è uno psicodramma. Proprio così: lavoro per aiutarmi a vivere, per guarire. L’ho capito quando ho saputo che in certe cliniche si fanno recitare i malati: è una maniera per guarire. Quando si ha qualcosa da dire, da mostrare, bisogna farlo. Non sono una scrittrice, una regista, sono solo un’attrice. Ma quando mi si dà la possibilità di scegliere, scelgo ruoli che abbiano un significato per le donne.

 

L’avventura
La storia del film appartiene alla mia vita, ma gli avvenimenti, qualche volta per la loro forza possono anche intromettersi nel racconto. Tutto avveniva per formare una storia. Era un film nel film: trombe marine, naufragi, fame, disperazione, abbandoni della troupe, ovviamente mai una lira, niente comunicazioni con il resto del mondo, nessun contatto. Sembrava di essere abbandonati su quello scoglio in mezzo ai vulcani sottomarini a lottare contro tutto e tutti. Come in un bel film il finale è stato sconvolgente: prima la bagarre alla proiezione di Cannes, poi il trionfo.

 

La notte
Il film fu giustamente girato tutto di notte, lusso che si poteva permettere solo Antonioni: nei suoi film il freddo è freddo (Deserto rosso, 17 gradi sotto zero), la neve è la neve, la nebbia è la nebbia, un’isola è un’isola, il mare è il mare. Luogo di lavorazione: un club di golf, La Barlassina, uno sconfinato orato di trifoglio e quadrifoglio. Fu un’immersione totale nel buio, senza mai incontrare il mondo, mai la realtà. Di giorno di dormiva, di notte si girava. L’ideale per non essere distratti, per avere la giusta concentrazione, per fare un buon film.

 

 

L’eclisse
Alain Delon con Antonioni aveva un rapporto difficile all’inizio: a parte la sua personalità singolarissima era un francese e un attore francese ama la verbosità, le lunghe chiacchierate, le spiegazioni: tutto quello insomma che non appartiene ad Antonioni. Michelangelo è un regista che ha con gli attori uno stranissimo rapporto. Non pretende da loro che siano straordinariamente intelligenti. Non ama le domande. Quello che vuole è la loro disponibilità, sensibilità, intuizione, a volte persino i loro difetti, i gesti o gli sguardi inconsci. Quando è finita la battuta che l’attore deve dire, non dà subito lo stop, aspetta quel momento di disagio che segue la fine della scena. E in quel momento di attesa l’attore è nudo, sospeso: questo per Michelangelo, è giustamente, un momento da rubare.

 

Deserto rosso
Nei film di Antonioni io ci sono, sì come attrice, ma moltissimo come persona, ci sono per intero. E rivedere un suo film è rivedere la mia vita. Deserto rosso è anche un film ecologico, attualissimo. Seguva la decomposizione di un cervello e quella dell’ambiente, senza pietà, in un cammino irreversibile. È rigoroso, sincero. È anche, com’è stato definito, il primo film realmente a colori. Antonioni aveva bisogno del suo colore senza usare altri filtri se non quello naturale della nebbia e del clima. Sì, forse la dominante scenografica era il grigio, ma il suo grigio nel quale dipingere la realtà.