Mettere insieme Isabelle Huppert e Paul Verhoeven è stato un colpo di genio. L’attrice francese più sado/maso/intellettuale di Francia e il regista dell’incrocio di gambe di Basic Instinct… Una che “più impenetrabile non si può” (e che, quando le chiedi dei grandi registi con cui ha lavorato ti risponde: “Non so. Chiedetelo a loro”) e un (all’apparenza) ultra pop libero e olandese che ha spedito Schwarzenegger su Marte (Atto di forza) e girato Robocop e Showgirls… Più che una strana coppia, un’accoppiata impensabile. Eppure qualcuno ci ha pensato. E loro hanno messo il loro copyright su Elle, strepitoso film arrivato, finalmente, nei cinema. Lei ha ottenuto la nomination all’ Oscar 2017 come Miglior attrice protagonista e, insieme, hanno vinto il Golden Globe. Li abbiamo incontrati all’ultimo festival di Cannes.
Un film che ruota intorna a una singola donna
Elle viene da un romanzo intitolato Oh…, di Philippe Djian, abbiamo cambiato il titolo perché mi ricordava Histoire d’O, che mi era stato proposto tanti anni fa. Il produttore ha suggerito Elle. Ho pensato fosse perfetto per un film che ruota completamente intorno a una singola donna. Non conoscevo il romanzo, me l’ha passato il produttore. Ero negli Usa. Era una bella storia. Ho aspettato che mi arrivasse la sceneggiatura e, sul set, l’ho adattata alla mia “idea”. Sono come uno scultore, che “lavora” una materia che cambia nelle mie mani, nella mia testa, nel mio gusto… All’inizio questo film doveva essere girato in America, a Boston o Chicago, con un cast completamente americano. Avevamo problemi a trovare dei co-produttori americani. Soprattutto nessuna attrice hollywoodiana voleva girare un film così “amorale”. Ci voleva Sharon Stone. Ma non c’era. E così ho pensato che, siccome il libro era francese, potevamo restargli fedele. È allora che Isabelle ha accettato.
Faccio film, non saggi
Elle è Isabelle. Michèle subisce violenza ma non è mai vittima: siamo abituati al contrario, io invece volevo sorprendere il pubblico. Volevo fare come Stravinsky che nelle sue partiture sconvolge sempre le regole. E non annoia mai. Solo Isabelle poteva capirmi. Solo lei poteva rendere credibile una che confessa che suo padre, cattolicissimo, ha ucciso 27 persone e lo fa con leggerezza, sorridendo. È questo che Hollywood e qualsiasi grande attrice americana non potevano comprendere. Io amo l’ambiguità. E amo le donne forti. Ma io faccio film, non saggi sul femminismo o sull’evoluzione della donna nella società. Michèle è un personaggio di un film. Io non dico alle donne di imitarla. Racconto con le immagini delle vicende e cerco di farlo nel modo più interessante, vero, credibile ed eccitante possibile: questo è il mio lavoro. Mi hanno detto che i miei film non finiscono, che non prendono posizione: amo i finali aperti. Qui doveva finire con le due amiche che si baciano: ho tagliato il bacio, meglio lasciare decidere al pubblico. Mi piace lavorare sul dubbio, le sfumature, le ragioni di tutti. Perché ognuno ha le sue buoni ragioni, sempre.
Filmare i pensieri
Isabelle in questo film è minimalista. Non fa grandi gesta. Neppure alla fine… È come se non recitasse, se si “annullasse”: le ho chiesto di mostrarmi i suoi pensieri, quelli di Isabelle/Michèle/Elle. E li ho filmati. Ci riesci solo con le grandi. A lei puoi chiedere tutto: è senza paura. Dovevo essere autentico. La violenza deve essere disturbante. Come accade nella vita, Elle è pieno di violenza: Michèle si relaziona agli altri con tutta la violenza che la contraddistingue. È la crime story, più che da un singolo crimine, nel film nasce dalle relazioni tra i personaggi.
Isabelle Huppert: Michèle è un personaggio vero e ambiguo
Più che “l’amoralità” è il contesto che in America non potevano capire. Questo è un racconto nato in Francia, su una donna che ha una vita molto parigina. Per me è stato naturale. E sono felice che abbiamo girato esattamente nelle location del libro. Michèle viene violentata, sia alza ed è come se pensasse: “Ok, è successo, ma non importa. La vita va avanti”. Ogni volta è sempre così: “Ordino un buon bicchiere di vino, in un bel ristorante, e ceno”. È lontanissima dallo stereotipo della donna vittima. Ed è molto ambigua. Vera e ambigua. Le scene di stupro sono potenti e “uniche”. Interrompono il film: sono dei buchi neri che irrompono nella routine di questa donna. Paul mi ha detto che, amando tanto Mondrian, il pittore, voleva fare come lui che rompeva la contrapposizione di rosso e blu con delle linee bianche. Le scene di violenza così sono ancora più disturbanti. Quando l’ho visto la prima volta mi ha colpita l’ambiguità che eravamo riusciti a creare, dalla prima all’ultima scena. Lei ha ragione ma è anche nel torto: come fai a giudicarla? Tutto si evolve in modo costante e nebuloso. Uccidere il suo violentatore? Prima lo sogna, lo immagina, poi… Alla fine il pubblico non sa cosa pensare di lei. Neanche io lo sapevo. A Paul piace così. E io decisi di fare l’attrice dopo aver visto uno dei suoi primissimi film, Fiore di carne: avrò avuto 20, 21 anni. Paul racconta storie di finzione con protagonisti veri. Uomini e donne vere. Anche gatti veri. Qualcuno ha detto che questo è un film molto francese perché si sta molto seduti a tavola. È vero, a noi piace mangiare, gustare, chiacchierare e raccontarci stando a tavola. Penso che anche altrove ci sia la tradizione del pranzo di Natale, ma quello che Paul fa succedere intorno e sotto il tavolo, nel film, è davvero unico. Lui racconta il mondo e ci ironizza sopra, rendendolo eccitante e non noioso: altrimenti chi andrebbe al cinema? E per quanto riguarda il gatto, in Elle è davvero il testimone silenzioso: è lui il primo a entrare in scena, illumina il film col suo sguardo e mi piace pensare che sia lo sguardo di Paul… Resta lì, fa da pubblico allo stupro: il che accresce l’ambiguità. E sì, è davvero importante il gatto…