«Come tutta la Francia, ho il cuore a pezzi»
Sylvie Vartan
Sabato 9 dicembre Johnny Halliday, all’anagrafe Jean-Philippe Smet, è stato salutato per l’ultima volta con una cerimonia funebre sugli Champs Elysées che per sfarzo e partecipazione ha avuto un solo precedente, il 1° giugno 1885, per i funerali di Victor Hugo. La differenza è che l’autore dei Miserabili non poteva contare sulla scorta in chiesa di 700 motociclisti su Harley Davidson. Hanno parlato il presidente Macron e un prete con la giacca di pelle, ma a contare veramente era il coro delle oltre 800mila persone che fuori dalla Madeleine cantavano Que je t’aime. Jean-Philippe era figlio di uno dei più noti surrealisti belgi, protagonista (anche lui con uno pseudonimo: Jean-Michel) di un piccolo capolavoro, Monsieur Fantômas, che vi invitiamo a vedere qui. Bambino prodigio, Jean-Philippe balla canta e recita, viene scelto per qualche pubblicità fotografica e scritturato da Henri-Georges Clouzot per I diabolici con Simone Signoret, Paul Meurisse e Vera Clouzot. È il 1954, ha 11 anni e comincia una carriera che ne dura 63.
Parliamo di uno dei più grandi rocker di tutti i tempi. Se non ci credete guardate lo show del 1995 allo stadio di Bercy e di cui trovate fedele cronaca in un video (qui) dove convivono Elvis, Chuck Berry e Rod Stewart (grande versione di Hot Legs), il blues e Gene Vincent, fino all’inosabile finale. L’Inno all’amore (Hymne à l’amour) di Edith Piaf solo voce e piano. Lei, scricciolo, lo cantava per il suo gigantesco amante pugile Marcel Cerdan. Johnny per il pubblico: noi, loro, la Francia che ora lo piange urlando a squarciagola i successi di una vita. Difficile per gli italiani comprendere la portata di una leggenda come quella di Johnny Hallyday. Un po’ Adriano Celentano (del quale cantò 24.000 basiers) e un po’ Vasco per la vita spericolata e l’incredibile seguito, ma i paragoni non bastano e sono fuorvianti. Forse le parole di Macron – «On a tous en nous quelque chose de Johnny», parafrasi di una sua splendida canzone che comincia così: «On a tous en nous quelque chose de Tennessee» – segnano l’intensità dell’adesione nazionale al mito. Nonostante l’allure americana, il romanticismo spaccone di Hallyday rimanda a una figura maschile ricorrente nella cultura francese popolare, quella dei teneri/duri incarnata sul grande schermo da Gabin prima e Belmondo poi. Tutte rockstar.
Johnny Hallyday al cinema. Una storia a parte. Anche nostra, diciamolo. Dopo l’esordio da bambino e qualche comparsata decorativa nei “musicarelli” d’Oltralpe debutta sul serio in un western all’italiana super interessante, Gli specialisti di Sergio Corbucci (1969), che andrebbe recuperato e storicizzato perché pieno di spunti originali. Accanto a Hallyday c’è un ottimo Gastone Moschin in un ruolo insolito. L’anno dopo il botto con un polar di Robert Hossein, che tutti dalle nostre parti ricordano solo come “il marito di Angelica” ma è invece il cineasta (attore-regista-sceneggiatore) più sottovalutato di Francia. Il film si intitola Point de chute e credo che il finale (potete vederlo qui) dica tutto della sua bellezza. Dopo una decina d’anni lontano dai set torna alla grande con Godard (Detective, 1985) e Costa-Gavras (Consiglio di famiglia, 1986) e nel 2003 becca il ruolo della vita con L’uomo del treno di Patrice Leconte. In una delle sue canzoni più belle in assoluto (J’la croise tout le matin) Hallyday racconta del suo ritorno mattutino dopo la solita notte brava e dell’invidia che ogni volta prova per una donna in attesa del primo treno, all’alba («Moi la lumière me fait peur», ci informa). Anche nel film di Leconte è come se interpretasse se stesso, desideroso di cambiare la parte molto noir del personaggio che si è cucito addosso con quella domestica e quieta, letteralmente pantofolaia, del professore interpretato da Jean Rochefort. Due performance memorabili. Meritano un cenno anche un piccolo film americano, ma tutto declinato al francese, In fuga da Chicago di Brad Mirman dove duetta con il rivale Renaud (andate al minuto 1’39” di questo spezzone e godetevi la gag radiofonica) e ovviamente il polar con la maiuscola Vengeance di Johnnie To, dove Hallyday è formidabile a dir poco (il trailer qui). Ciliegina sulla torta il più recente Parliamo delle mie donne (ma in originale suona in tutt’altro modo: Salaud, on t’aime, 2014) nostalgico ritratto alla maniera di Claude Lelouch, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta. Dopo 63 anni ininterrotti di Johnny Hallyday restano, benvenuti, i “souvenirs”, quelli che in molte sue canzoni sono definiti “tendres”. Ciao Johnny.