Oggi che in occasione della sua scomparsa ne viene ricordato il nome, Luis Bacalov lo si associa molto più alle colonne sonore che ha composto che al suo lavoro per il pop italico. Non saprei dire se il suo impatto sia stato influente, dal momento che la figura dell’arrangiatore nella discografia italiana non godrà mai più della rilevanza che aveva in quel momento. Di sicuro è stato importante, numericamente. Tra i Sessanta e i Settanta Bacalov ha firmato una serie di canzonette più o meno ambiziose per autori che messi in fila sembrano raccontare anche una sotto-storia parallela di ciò che accade al pop nell’arco di un decennio, dal disimpegno come requisito alla punizione pubblica per la sua natura: Rita Pavone, Gianni Morandi, Marisa Sannia, Riccardo Del Turco, i Ricchi e Poveri, i Cugini di Campagna. Patty Pravo, nel pieno del suo tentativo di transizione da diva pop a chanteuse drammatica (Per aver visto un uomo piangere e soffrire Dio si trasformò in musica e poesia e alcune canzoni da Mai una signora). Premessa la natura sempre intermediaria di questo lavoro da arrangiatore, che rende ogni valutazione di massima sempre relativa, nel suo contributo alle canzonette ci sono dei fili conduttori: la grandeur fine che non necessariamente coincide con un barocchismo spericolato, la disponibilità alla contaminazione elevata, una felice porosità rispetto alle nuove strade tentate da rock, funk, prog, jazz. È meglio precisarlo oggi che molta stampa sta banalmente prestando il fianco all’associazione tra Bacalov e il compositore delle musiche de Il postino, cioè una partitura realizzata quando Bacalov aveva già detto molto di quello che doveva dire e che viene erroneamente spacciata come indice di una certa presenza “latina” tra le sue influenze.
Chiaramente spetta ad altri parlare di queste partiture. Se proprio si vuole avere un’idea in meno di un’ora di quel che fosse il lavoro di Bacalov per il cinema, è meglio ricorrere al fondamentale disco con gli Osanna per Milano Calibro 9 di Fernando Di Leo, un’orchestrazione che incredibilmente cresce in oscurità e tensione man mano che ci si allontana da essa a livello temporale. E per chi vuole documentarsi, c’è Superonda di Valerio Mattioli, libro freschissimo e già pietra miliare per la ricostruzione di un quindicennio in cui abbiamo osato come pochi al mondo, ma non lo sappiamo ancora. A me pare che Bacalov – un autore che ha anche patito l’esistenza, in Italia, di una figura di importanza gigantesca come Morricone per godere di un’analisi un po’ più organica – abbia riversato nel pop quella sensibilità e duttilità narrativa sviluppata nel cinema. Potrebbe sembrare banale come constatazione, ma tant’è: certi ascolti sembrano far passare proprio questa tensione verso una linea musicale che sia anche immaginifica, sensoriale, inaspettatamente vivida.
Se oggi dovessi consigliare un ascolto che trasmetta tutto ciò, sceglierei senza molti dubbi Sabato pomeriggio di Claudio Baglioni, anno 1975. Un lavoro peraltro gustosissimo, riascoltato con meno pregiudizio e uno stomaco ben più allenato a distinguere la percepita dolcezza saccarina dei contenuti dal romanticismo portato alle sue estreme conseguenze. È un disco sostanzialmente costituito da piccoli frame tematici (soggetto comune: “l’attesa”, perché il ‘concept album’ per Claudio pareva essere un minimo indispensabile) arrotolati attorno a due centri musicali di grande intensità (“Poster” e la title track). Il Claudio nazionale a questo punto stava lavorando per portare all’estremo la sua maniacalità nella descrizione del dettaglio pittorico, addirittura tentando di eliminare la narrazione e limitarsi all’osservazione del movimento della vita che si fa sé, una pratica che diventerà cruciale per Strada facendo e La vita è adesso. Intenzioni che si sposavano perfettamente alle abilità di Bacalov: così prendono una vitalità fortemente immaginifica i quadretti di domeniche post prandiali davanti alla radio (“21X”), che Bacalov riadatta in un malizioso funky da commedia sexy, come a sfottere il maschio medio italico, i percorsi di analisi di “Il lago di Misurina” in cui l’esistenzialismo riecheggia con il paesaggio al punto che la canzone, d’improvviso, si gonfia verso la corale polifonica per poi sgonfiarsi di nuovo. C’è persino spazio per una sfuriata free jazz in “Alzati Giuseppe”, che pare utilizzata in chiave parodistica (e vagamente conservatrice, considerando il tema del brano). Ovviamente la massima esemplificazione del contributo di Bacalov la si ha nelle due canzoni centrali dell’album, imponenti anche sul piano della durata (quasi sei minuti a testa). “Sabato pomeriggio” (la canzone) è un capolavoro di dissolvenze, flashback (il terzo ritornello, sostanzialmente, che agisce come la riproposizione del momento di disperazione del protagonista), fratture temporali (“Passerotto non andare via” in realtà è il prologo dell’album, mentre la canzone compiuta ne è il finale).
Considero un capolavoro di Bacalov la transizione dalla strofa – “non andar via, non andar via” – al ritornello: è come se l’orchestrazione smaterializzasse l’impennata armonica progettata dal buon Claudio, una delle sue più ardite modulazioni, facendola galleggiare nell’aria a un livello altissimo, come se stesse faticosamente sostenendo uno slancio eroico impossibile, e tutto è celeste e riecheggiante, come se la voce che implora “senza te che farei” dovesse penetrare in ogni pertugio lasciato disponibile tra finestre aperte e balconi svettanti sul paesaggio urbano di questa metropoli ricostruita, mentre un fiammeggiante tramonto autorizza i colori della malinconia più melodrammatica (la copertina dell’album, in questo senso, è un capolavoro).
È un effetto traslato anche in “Poster” , una canzone che rinuncia addirittura allo spunto narrativo e diventa panoramica globale, dal luogo pubblico per eccellenza (“la panchina fredda dal metrò”) alla vita che si svela nelle sue innumerevoli forme, vento compreso. Quel ritornello iper dilatato ( “E andare, lontano, lonta-a-aa-a-a-no”) avrebbe avuto un impatto drasticamente inferiore senza la straordinaria capacità della partitura di Bacalov di estenderne le distanze verso l’orizzonte, rarefarne la densità, spostare lo sguardo dal micro al macro, dal dettaglio alla linea dell’orizzonte che sfuma verso l’infinito, dal buio dell metropolitana al cielo. Tutto l’album Sabato Pomeriggio è pieno di clavicembali che sembrano rubati a certi poliziotteschi di inizio anni Settanta, soluzioni armoniche iper-dolciastre da epopea dell’eroe solitario, un’effettistica da cartoon. Ma è soprattutto “Poster” – insieme alla title track, deliberatamente melodrammatica, straziante fino all’autoironia – a documentare nel modo più efficace la modalità con cui il lavoro di Bacalov per il cinema sia approvato nella forma canzone, almeno lungo una traiettoria virtuosa in cui la canzone è stata esaltata dall’orchestrazione, e non affossata (ed è capitato tante, tante volte). Una canzone-pianosequenza, nel senso cinematografico del termine, con le sue rotazioni sull’asse, le zoomate sui dettagli e le carrellate a retrocedere, e certi primissimi piani (“il giornale aperto sulla pagina dei film”, uno strabiliante giochetto metalinguistico) che allargano lentamente verso il paesaggio. Quasi a vedere i contorni sfumare, per effetto del sole.
Vincenzo Rossini è autore del blog musicale Unadimille