La prima inquadratura di Austerlitz è da dietro alcune fronde, quasi a nascondere, ancora per un attimo, l’inferno in cui stiamo per entrare. Siamo a Sachsenhausen, a pochi chilometri da Berlino, un campo di concentramento non drammaticamente celebre come Auschwitz, ma forse anche per questo luogo esemplare del funzionamento della macchina dello sterminio, vicino al cuore della follia nazista. La macchina da presa inquadra il vialetto che porta all’ingresso, frontalmente, quasi costruendo una soggettiva del luogo – del campo – in attesa di una pacifica invasione. C’è gente che legge mappe e cartelli, le audioguide in una mano e i cellulari nell’altra, una carrozzina attraversa lo schermo, zaini e magliette da gitanti della domenica. Il cancello d’entrata riporta la scritta “Arbeit Macht Frei”: ma cosa oggi rende liberi da quella spaventosa menzogna, cosa cercano i visitatori del campo, qual è il loro rapporto con la storia del luogo che stanno attraversando? Cosa voleva mettere in scena Sergei Loznitsa, maestro dell’osservazione, in questo film che più che raccontare la musealizzazione di un concetto (quello della Memoria legata a un luogo, la testimonianza spaziale della Storia più nera) vuole indagare il nostro potenziale rapporto con esso? Sin dal titolo, che rimanda all’omonimo romanzo di W. G. Sebald con protagonista un architetto alla ricerca delle proprie radici, è chiaro che il soggetto del film è la persistenza dei luoghi, la loro capacità di trattenere e trasmettere l’umano, la memoria – letteralmente – delle cose.
In un’intervista Loznitsa ha spiegato che «l’architettura è l’unico soggetto che rimane sempre a fuoco in ogni scena, l’unico che inquadratura dopo inquadratura mantiene una qualche aura di dignità». Le persone, quindi, sono lo sfondo in movimento su cui si stagliano le strutture immutabili del campo, non toccate nella loro testimonianza di senso dal passaggio dell’umano. Ma è possibile per i visitatori, come per il protagonista dell’Austerlitz romanzo, entrare in contatto con la storia collettiva che ognuno di noi si porta dentro? È conoscenza quella che si cerca o una cura irrazionale alla generalizzata amnesia, un gesto collettivo in cui trasformare la nozione teorica della Shoah in qualcosa di tangibile, la reificazione di un’idea? Il tema morale del film sembra risiedere in questo dilemma: come è raccontabile, testimoniabile, tramandabile l’Orrore? Luca Malavasi, in un bell’articolo su Cineforum.it, si affida più che alla mediazione di Sebald alla guida di Georges Didi-Huberman e al suo racconto della visita ad Auschwitz descritta in Scorze: «una visita nel tempo del campo, oggi “luogo di cultura”, ieri “luogo di barbarie”, nella distanza che separa queste due definizioni, una visita a ciò che resta – può davvero restare – del primo nel secondo». Quindi uno spazio declinato temporalmente, che unisce passato e presente fornendo esso stesso una sintesi che il pubblico – noi – sembra impossibilitato a cogliere. Perché se l’urgenza etica che muove il ragionamento di Loznitsa – o meglio, il suo interrogativo – è cristallina, qualche dubbio sembra sollevarsi dal suo atteggiamento relazionale. Come abbiamo detto, il fuoco della messa in scena è piantato nelle mura del campo, nei suoi confini concentrazionari, ma presto lo schermo si riempie di varia umanità ed è in quella che, nonostante tutto, non possiamo fare a meno di specchiarci. Dall’impassibile oggettività (che discende dritta dai Lumière) dello sguardo di Loznitsa – bianco e nero, inquadrature fisse, impasto sonoro che apparentemente non seleziona ma sovrappone voci e rumori – emerge un distacco incolmabile: in scena appaiono dei volenterosi carnefici della memoria, che affrontano Sachsenhausen come una variante horror di un qualsiasi parco a tema – la t-shirt di Jurassic Park indossata da un visitatore! – destinati all’assenza di consapevolezza come fosse una maledizione. La folla di vivi che trotta attraverso il percorso prestabilito del campo – una lancinante trama già scritta: dall’ingresso anodino all’indicibile finale delle docce e del gas – si sovrappone con stridore lancinante alla folla muta dei trucidati, ricordati incidentalmente dalle meccaniche parole delle guide. Loznitsa sbircia per cogliere in fallo, sottolinea crudelmente il baratro morale fino a renderci – noi spettatori – impermeabili alle imperfezioni di chi sullo schermo appare implacabilmente fuori luogo. A sottolineare la distanza tra il regista e i suoi soggetti/oggetti di osservazione è la continua presenza di muri, cancelli, porte, vetrate che Loznitsa, con autoindulgenza programmatica, frappone tra sé e la massa. In fondo, nel luogo della spersonalizzazione come forma di massacro seriale, Loznitsa cerca nella folla responsabilità individuali, non trovando né responsabili né individui. E quindi la frontalità esasperata ci spinge a una fuga prospettica, ad emarginare la massa che occupa lo schermo per trovare un barlume di verità negli oggetti inanimati, unici testimoni parlanti nel brusio generalizzato. I passanti, del resto, evitano regole d’ingaggio e nonostante la macchina da presa sia sempre in mostra, sono rari gli sguardi in macchina: un atteggiamento tipico di chi è evasivo, di chi sente di aver qualcosa da farsi perdonare. Perché se è vero, come scrive Raffaele Meale, «che Austerlitz è il mezzo per riavvicinare fruizione e storia» o quantomeno un tentativo di porre la questione, è anche vero che la risposta di Loznitsa sembra negativa, disillusa dalle capacità metaboliche del moderno uomo-gregge. Anche noi, alla fine, come i turisti del film, usciamo dalla visione come liberati dal senso di colpa non perché finalmente capaci di elaborare una qualche risposta catartica – sforzo titanico a cui è però impossibile sottrarsi – ma perché finalmente lontani da quello sguardo giudicante che raddoppia e sottolinea il nostro, mai così inadeguato. Un cinema umanista nelle intenzioni, certo, ma vagamente disumano nei risultati.