Un canto di Natale, temperatura noir, caratura polar, composizione Desplechin, dove quindi la figura e lo sfondo dialogano, danzando un paso doble tra soggettività e coralità che tiene il ritmo dell’insieme. Luci calde di solitudine nella notte e ingrigite di indifferenza di giorno: le strade di Roubaix, nelle Fiandre francesi, sono un reticolo di umanità intristita dalla miseria, che il commissario Daoud percorre come fossero strati della propria coscienza con cui fare i conti. Arnaud Desplechin, del resto, non avrebbe mai rinunciato al gancio strutturale di una soggettività letteraria per trovare le coordinate di Roubaix, une lumière (in Concorso a Cannes) e Daoud (Roschdy Zem) è il classico corpo noir, che porta il peso dei delitti e dei castighi, delle colpe e dell’innocenza in cui si bagna ogni giorno la città. Nel suo passato una famiglia ormai ritornata in Algeria, nel suo presente la solitudine del poliziotto senza famiglia (a parte un nipote in carcere, che lo odia senza mezzi termini) e la sua squadra del commissariato. Alla quale s’è appena aggiunto il giovane Louis (Antoine Reinartz), fresco d’accademia: suo armonioso contraltare, dotato di una fede e di una luce nei suoi occhi chiari che non risplendono certo nello sguardo scuro, disilluso ma non disinteressato, del commissario.
Desplechin soffonde queste figure in una sorta di flusso di coscienza condivisa che alterna la focale lunga dell’identità delle figure in campo con la focale corta della città, che del resto campeggia da protagonista nel titolo. E’ dallo sfondo che emergono i drammi che si impongono alla coscienza di Douad come casi della quotidiana umanità: una ragazza è scappata di casa, un uomo finge un’aggressione per incassare l’assicurazione, qualcuno ha dato fuoco a un appartamento disabitato e, soprattutto, una vecchina ottantenne è stata trovata strangolata nel suo letto. Claude e Marie, due sbandate amanti che vivono lì accanto (Léa Seydoux e Sara Forestier), sono le principali sospettate e l’inchiesta si struittura sulla loro colpevolezza, di cui Douad è certo. La materia poliziesca è pura e semplice, tanto quanto la matrice melvilliana cui il regista evidentemente attinge, intingendo però il tutto di una profondità sentimentale tutta sua. Roubaix, une lumière, che Desplechin s’è fatto ispirare da un documentario di una decina d’anni fa di Mosco Boucault ( Roubaix, commissariat central, affaires courantes), è un film che lavora sulla pulsionalità degli elementi, tanto quelli narrativi quanto quelli filmici. E’ come se Desplechin partisse da una prospettiva figurativa ben precisa, tagliata sulla nettezza compositiva dei personaggi e degli sfondi, per lasciarsi poi guidare da un instinto più docile, capace di una disposizione spirituale soffusa che sorregge il dolore e la miseria che cala sui personaggi. Il dialogo implicito tra Douad e Louis verte proprio sulla luce e sull’ombra, sulla consapevolezza dell’oscurità che appartiene al primo e sulla certezza della luminosità in cui si muove il secondo. Desplechin assume la forma del noir, che è cinema intinto nel nero, appunto, nel buio, ma poi fa un film che intitola proprio a “une lumière”, alla luce che si accende. Se il film si incarna in Douad, è in Louis che trova il suo punto di fuga: nella sua purezza, nella semplicità antica con cui a un certo punto lo mostra inginocchiarsi davanti al suo letto per pregare prima di andare a dormire, quasi fosse nell’Angelus di Millet.