Tornare sul luogo del delitto è a volte un atto di coraggio e a volte un guanto di sfida. Lo fa Sean Penn che, a cinque anni di distanza dal roboante fallimento di The Last Face, era di nuovo in concorso a Cannes74 con il suo Una vita in fuga (Flag Day) in cui, abbandonando il dramma dell’Africa trasformato nel film precedente in patinato mélo umanitario, torna a raccontare i frutti, spesso marci, dell’America marginale. Penn è John Vogel, uomo che, per trovare un modo di far fortuna, si lascia guidare dalle molte ambizioni e dalle troppe idee, tutte sbagliate. A farne le spese è la sua famiglia: una moglie distante quanto irresponsabile e i due figli, il piccolo Nick e l’adorata Jennifer, cresciuta in una sorta di idolatria inspiegabile per l’inaffidabile padre. Costretto dai debiti ad allontanarsi dai suoi cari, John viene raggiunto anni dopo da Jennifer che, in fuga dalla madre, vuole ricostruirsi una vita sotto la sua ala protettiva. Ovviamente questa non si rivelerà una buona idea. Il film, immancabilmente tratto da una storia vera, raccontata dalla stessa Jennifer nel libro Flim-Flam Man, rielabora e smitizza la figura vagamente anarcoide e quasi sempre perdente del truffatore in perenne conflitto con se stesso prima ancora che con lo Stato. Penn, lasciandosi alle spalle lo sconsiderato esotismo di The Last Face, cerca qui di confrontarsi con un materiale a lui più congeniale, raccontando l’ennesimo loser della sua carriera, un uomo incapace di fare i conti con se stesso, che si vorrebbe larger than life ma che invece rimane sempre schiacciato dai suoi propositi fallimentari, tradotti banalmente in rapine finite male e in goffi tentativi di falsificare denaro. John vorrebbe essere un esempio per i suoi figli, finendo sempre per deluderli; stravede per Jennifer ma la abbandona a ripetizione – per nascondersi prima, per finire in galera poi – tradendo quel desiderio di protezione che la figlia ha sempre espresso con fiducia.
Penn costruisce questa storia di amore e tradimento tra padre e figlia mettendosi in scena a fianco della sua vera figlia, Dylan, cercando un cortocircuito tra realtà e finzione che funziona solo a intermittenza. La psicologia dei personaggi – lui ostentatamente sicuro di sé e ciclicamente travolto dal fallimento; lei alla continua ricerca di un punto di riferimento, spesso consolata dall’abuso di droghe – è però singhiozzante, monocorde, stranamente poco coinvolgente, resa inerte dalla sorprendente assenza di chimica tra i due protagonisti. I meccanismi relazionali non si evolvono, sembrano incastrati in un avvitamento narrativo che trova soluzione solo attraverso l’autonomia che Jennifer conquisterà con il suo lavoro di giornalista. In Una vita in fuga Penn abbandona il barocchismo enfatico di The Last Face per avventurarsi in una messa in scena derivativa e solo a tratti centrata. La voce over, le inquadrature mistiche e sbilenche, gli accarezzamenti del grano devono molto – troppo? – al modello malickiano; il canone di riferimento sembra essere la libertà di certa New Hollywood mentre lo stile del film ricalca – con i suoi salti narrativi, le sue divagazioni on the road, i suoi momenti nevrotici – un certo cinema anni Ottanta, da Oliver Stone in giù. E se la frantumazione dell’illusione del sogno americano, riletta a ritroso in chiave post-Trump, è argomento che come l’araba fenice sa rinascere sempre dalle proprie ceneri, ciò che lascia un delusi è la poca capacità introspettiva, la monodimensionalità delle psicologie, la scarsa emotività di una storia dal potenziale decisamente maggiore. A sostenere il film, troppo spesso traballante e vagamente asettico, è la colonna sonora che, meglio delle immagini, traduce la malinconia del fallimento, l’indecifrabile fragilità delle relazioni: le voci di Eddie Vedder, Glen Hansard e, soprattutto, Cat Power sembrano interpretare al meglio l’ipotetica anima del film e con il loro canto sussurrato raccontano dell’America e del suo spirito più delle molte parole, spesso urlate, messe in bocca ai protagonisti.