«Credo che sia soprattutto un film sullo sguardo degli altri e sull’autocensura. Una censura invisibile ma molto violenta. Lo sguardo che abbiamo su noi stessi è nutrito da quello dei nostri cari, della società. E finiamo con l’interiorizzarlo».
Filippo Meneghetti
Cosa si è disposti a fare, in nome del grande amore della vita, se è clandestino? Qual è il limite della negazione di sé e dell’altro, dietro l’immagine precostituita da famiglia e società? Due di Filippo Meneghetti, italiano di nascita, statunitense e francese di formazione, traduce in immagini queste domande in un esordio di pregio, un vero colpo di fulmine. Un film d’amore assoluto, universale, che colpisce per quanto amore per il cinema dissemina e sprigiona in ogni dettaglio, ogni singola inquadratura. Lo hanno capito al volo i colti e appassionati distributori di Teodora, che per restituire al pubblico quel “piacere del cinema” teorizzato dal fondatore Vieri Razzini e negli ultimi mesi ostacolato per noti motivi, lo portano direttamente nelle sale. È un piacere ritardato, quindi merce introvabile oggi, quello di Due. Non solo perché è pronto dal 2019 e da allora è molto atteso, dopo un fitto percorso di festival, i premi César e l’inattesa candidatura della Francia all’Oscar. Ma il suo “freno” risiede prima ancora nei principi stilistici del film: un ritegno, una misura che non va confusa con una generica pruderie. È al contrario preciso gusto dell’ellissi, economia mirabile di racconto, in un rilascio progressivo di informazioni ed emozioni che riguardano le sue magnetiche protagoniste. Due donne anziane, la single Nina (Barbara Sukowa) e la vedova Madeleine (Martine Chevallier) vivono in due appartamenti separati che occupano l’intero ultimo piano di un palazzo. Ai figli di Madeleine, Anne e Frédéric (Léa Drucker e Jérôme Varanfrain), che in lei vedono una madre e nonna amorevole, le due nascondono la loro relazione di lungo corso dietro la finzione di un cordiale vicinato. Finché un imprevisto non ne stravolge ménage, programmi, perfino i ruoli.
Tra i loro appartamenti speculari – uno pieno di oggetti e arredi simbolici, l’altro quasi vuoto, spartano come una foresteria – sta solo un pianerottolo, con un ascensore che le collega al resto del mondo, un quartiere limitrofo a un viale alberato su un fiume, set di un prologo folgorante su un nascondino infantile, onirico e premonitore. È da questo spazio solo apparentemente semplice e simmetrico che Meneghetti (sceneggiatore con Malysone Bovorasmy e Florence Vignon) costruisce un thriller sentimentale di disallineamento, sbilanciamento, tutto declinato in un presente carico di senso, fatto di corpi invecchiati, vestitissimi eppure erotici, silenzi complici, risparmiandoci flashback esplicativi e digitalmente ritoccati. In una continua oscillazione tra dentro e fuori, tra desiderio e castrazione, percezione identitaria e accettazione sociale, che il regista gioca su tutti i piani, sfruttando al massimo la profondità di campo, la colonna audio e ciò che sta fuori dall’inquadratura. Fuori e dentro le porte, dal palazzo, da una macchina o da una parete che ci tengono a distanza, di volta in volta, da dialoghi e gesti molto privati.
Da qui scaturiscono le molte godurie del film: si possono cogliere i riferimenti a Hitchcock e Polanski, tra movimenti felini e intrusioni proibite, sbirciando dalla lente dello spioncino o origliando alla porta. Si può restare in contemplazione della recitazione minimalista di Chevallier e della trasformazione romantica di Sukowa, convenzionalmente più associata ai drammi fassbinderiani e alle biografie di Von Trotta. Ci si può lasciar sedurre e provocare da un thriller senile dei sentimenti, nel quale ogni movimento di macchina, ogni oggetto è a servizio della narrazione: un orologio a pendolo fuori tempo massimo, una lavatrice che sembra un allarme, una pentola lasciata sul fuoco, un piccolo souvenir che evoca anni d’amore. Si può essere anche emotivamente coinvolti dai paradossi drammatici legati all’invisibilità della coppia lesbica âgée (uno spazzolino in più, una vecchia foto mai osservata nei dettagli, un sasso che frantuma una finestra) per cui ogni sguardo si trasforma in un vettore di giudizio, un segnale d’intesa, un messaggio in codice. O semplicemente parteggiare, insieme al film, per l’amour fou e quel sogno di fuga che trasforma anche un valzer ascoltato in un locale in “quella” canzone, la loro.
Tutto ciò accade perché l’identificazione emotiva e la percezione di costruzione stilistica complessa non si escludono tra loro in questo film di specchi, superfici riflettenti, ambienti comunicanti e mai perfettamente comprensibili, illuminati con cromie e chiaroscuri notevoli da Aurélien Marra (anche lui esordiente nel lungometraggio). Un film di elementi visuali e sonori che sembrano rimandare di continuo alla complessità dell’eros, alla sua strutturale inconoscibilità. Ma anche alla sua possibilità, che non conosce limiti di tempo. Una possibilità mai data per scontata, sempre posta sotto condizione. Lo ricordano anche in chiusura le parole di quella canzone, Chariot (Sul mio carro) nella versione di Betty Curtis (“se verrai con me… se m’ami… se mi amerai”). Due è la sirena che ci ricorda ogni istante i limiti che abbiamo imparato a infliggerci e il potere evocativo del cinema, l’invito, la promessa di evasione, di un mondo fantastico che può materializzarsi anche in pochi metri quadrati. Un appuntamento e un appagamento da non mancare.