E fu sera e fu mattina: Old di M. Night Shyamalan

Un film sulla distanza tra la vita e il tempo: cosa di certo non nuova nel cinema di Shyamalan, solo che in Old il tema assume una forma plastica, a vista, tanto da diventare il nucleo non solo tematico ma letteralmente narrativo del film. Che è, per l’appunto, la storia di un pugno di uomini e donne e bambini costretti a coprire la distanza che separa le loro vite dal loro tempo, chiamati a guardare in faccia non già le loro esistenze ma il loro ciclo vitale, spinti a incarnare la loro presenza biologica invece che la loro traccia esistenziale… Corpi in mutazione a vista, ovvero a vita: come dire Kevin Wendell Crumb che guarda in faccia l’Orda… La potenza della vita che divora se stessa, l’energia biologica che possiede i corpi e li spinge oltre, li trasforma, lì articola oltre la loro disposizione… Ma veniamo ai fatti, per quanto in un film come questo siano pochi, essenziali: c’è una conca, un’insenatura della costa da qualche parte del mondo, che per un motivo inspiegabile accelera il tempo dei corpi. Non il tempo in sé, solo quello dei corpi: le persone che vi entrano (e che, in ragione di una misteriosa forza, non possono uscirne) invecchiano quasi a vista, senza scampo: i bambini diventano adulti, gli adulti vecchi, i vecchi muoiono, i morti si decompongono rapidamente… Il ciclo vitale completo, ma a una velocità accelerata. I personaggi sono mere dramatis personae a valenza esclusivamente fisiologica – e già questo, per uno storyteller come Shyamalan, è un fatto eccezionale: l’incidenza drammaturgica delle loro azioni e reazioni è immanente alla performance fisica che sono chiamati a esperire e incarnare, inutile stare a soppesarne la credibilità psicologica, la pregnanza drammatica, la sostanza delle backstories… Old non è un film come gli altri, per certi aspetti è un oggetto astratto, qualcosa che potrebbe stare molto bene accanto a Wavelenght di Michael Snow, tanto più che il punto di fuga, e non solo prospettico, è offerto dal mare…

 

 

Ad ogni modo, c’è la famiglia in crisi che giunge nel resort esclusivo per quella che in realtà è una vacanza di fine matrimonio. Viene prescelta per una escursione in una conca ancora più esclusiva, assieme ad altre famiglie: un chirurgo con moglie più giovane, figlia, madre anziana e cane, una coppia di psicologi. Un rapper nero, al quale sanguina il naso, è invece già sul posto, si direbbe da solo… Dall’acqua affiora il cadavere di una donna e non si fa in tempo a gestire lo shock che la madre si accorge che i figli stanno crescendo a vista. Il resto è vita, ovvero invecchiare e morire nell’arco di una giornata, mentre il chirurgo si perde nell’Alzheimer, i bambini cedono alla pubertà e mettono al mondo figli, il sole tramonta e sorge: e fu sera e fu mattina…Old è di sicuro il film più implicito di Shiamalan, quello che meno spiega, dice, ragiona, svela: tutto è chiaro sin dall’inizio e il mezzo twist che aggiunge nel finale rispetto al graphic novel di Pierre-Oscar Lévy e Frederick Peeters (Castello di sabbia, Coconino) è funzionale a focalizzare l’idea di voler fare di questa storia un sostanziale controcampo di Lady in the Water. Tanto quello era un film di personaggi, in cui ogni figura incarnava un ruolo e definiva una parte della storia, e ogni azione era finalizzata a tracciare una via d’uscita, tanto Old è un film di corpi senza storia, mera materia organica in decomposizione senza possibilità di scampo, figure sotto osservazione di Shyamalan, che ancora una volta sta lì a maneggiare obiettivi e telecamere. Il resto dell’azione lo fa la natura, che, come in E venne il giorno, è una minaccia invisibile come un soffio letale – e per un film girato e visto in tempo di pandemia non è dire poco…

 

 

Del resto, nel cinema di M. Night Shyamalan il corpo è sempre una figura in transito, una sorta di punto di fuga, necessario per definire una prospettiva dello stare nel mondo che risponda a funzioni differenti dal mero esserci. Anche in Old, ovviamente, è così: è chiaro che il motivo per cui Shyamalan è stato attratto dal graphic novel di Lévy e Peeters risiede nell’idea di poter lavorare su una storia che distorce la percezione del corpo alla quale siamo abituati, non più semplicemente l’involucro di un tempo immanente dell’essere (la gettatezza del qui e ora…), ma la plastica rappresentazione di quella mutazione in atto che per lui da sempre (sin dai tempi di The Sixth Sense) la figura umana rappresenta. Se è evidente che ogni eroe di Shyamalan non possiede la sua vita perché è sostanzialmente separato dal proprio tempo, in Old il regista sembra quasi voler forzare il gioco e farci guardare la vita con gli occhi dell’Orda: una questione di energia scomposta, separata dal sentimento del divenire, pura funzione biologica che ignora paura e desideri dei viventi. In Old la vita è il mostro, i viventi sono le vittime. E infatti Shyamalan li filma perseguendo un vero e proprio disordine visivo: inquadrature scomposte, stacchi repentini, tagli imprecisi, prospettive inattese… Questo nella conca, dove la ratio non ha ragione d’essere perché è la pura, brutale forza vitale a governare il tutto. La narrazione – che in Shyamalan è sempre ordine, funzione, ragione e destino – resta fuori dalla conca, nelle scene dell’arrivo al resort, in quelle nella suite, dove infatti Shyamalan organizza i piani visivi con mano magistrale, un’armonia di livelli prospettici, un dialogo costante tra le figure in campo e il punto di vista della macchina da presa. Un pugno di inquadrature che rappresentano una delle vette nel cinema di Shyamalan, messe in un film che rappresenta uno dei punti più astratti del cinema di questo grande regista.