Fantasmi del dialogo: Talk to Me, di Danny e Michael Philippou

Il punto di partenza è come in altri casi il gioco, quello praticato fra ragazzi che cercano l’esperienza al limite, rappresentata in questo caso dallo stringere una mano di ceramica (che sembrerebbe celare l’arto mozzato di una medium) per comunicare con i morti (da cui il titolo “parla con me”). Di seguito arriva il permesso (“ti lascio entrare”) perché gli spiriti possano impadronirsi dei loro corpi viventi, in una versione ultraterrena della perdita di coscienza e dello “sballo”. Ma qualcosa, naturalmente, va storto. Non va invece male a Talk to Me, che partendo da questa premessa che sembra una rielaborazione un po’ più cervellotica dei vari Oujia del caso, riesce a governare il racconto con attenzione, dosando le parti più strettamente orrorifiche, senza eccessive concessioni ai facili spaventi, ma giocando bene con l’estetica della mortificazione del corpo. Sia perché le visioni degli spiriti incarnano una certa cifra grottesca tipica dell’horror australiano – da sempre iperbolico in questo senso – con figure raccapriccianti e parossistiche nella loro decadenza fisica, ma anche per l’autolesionismo che i ragazzi praticano una volta posseduti (tanto da dover essere legati alla sedia). Il corpo, non a caso, è il vero campo di battaglia su cui si consuma la lotta della vita dei vari protagonisti, ritratti come una generazione repressa, sia nel rapporto con i genitori (assenti o al limite iperprotettivi e sempre prodighi di divieti), che tra loro. Indeterminati sessualmente o incapaci di consumare rapporti, vivono ogni momento di avvicinamento in modo problematico e non riescono a instaurare mai un dialogo franco con chi sta loro vicino.

 

 

I fratelli Danny e Michael Philippou (già coinvolti nella produzione di Babadook) sono noti in patria come youtuber e riescono a catturare in questo modo l’immagine di una generazione ansiogena e come “congelata” nel rimpianto delle occasioni mancate per la loro indecisione: afflitti per la scomparsa di genitori con cui non hanno saputo mantenere un dialogo fecondo o per storie sentimentali non andate a buon fine a causa di intenzioni mai dichiarate, descrivono una realtà dura, con protagonisti complessi che paiono vivere la vita con l’intensità amplificata dell’adolescenza, ma anche con l’amarezza dell’età adulta, in un ritratto affascinante e articolato. L’idea del contatto che si deve stabilire con la mano maledetta, quanto del “permesso” che deve essere concesso per il possesso del corpo, si pone così quale efficace allegoria e contrappasso di una condizione altrimenti bloccata nell’inazione. La ricerca di un’esperienza da “sballo”, che si ponga quale possibilità di provare un’emozione forte, delegando a una presenza altra il controllo del corpo, diventa una metafora efficace dell’inadeguatezza rispetto a sé stessi, cui si cerca rimedio in modo facile e immediato. La conseguenza di questo comportamento, però, finisce proprio per colpire nel pieno dei rapporti affettivi: fratelli che impazziscono o vengono ridotti in coma, amicizie che lasciano esplodere il non detto e portano a separazioni profonde sono la diretta conseguenza di un ribaltamento della vita che è già in atto.

 

 

Fuggendo le loro responsabilità, i protagonisti di Talk to Me sono insomma già in una condizione di non vita, che spiega la loro fascinazione per la morte, ridotta però a sua volta a bizzarro gioco di cui non si temono le conseguenze. I fratelli Philippou in questo senso giocano con la perfezione visiva, in un’alternanza di centralità delle figure nelle inquadrature e sfondi sfocati che progressivamente ridisegnano i connotati del mondo, fino al geniale ribaltamento finale. Il gioco trova perfetta corrispondenza tanto nell’ansia di filmare i momenti della possessione per poi condividerli sui social – argomento che evidentemente i registi sentono molto vicino – quanto nelle aspettative dello spettatore, guidato ingannevolmente in un gioco di specchi dove le identità si confondono, complice la capacità degli spiriti di assumere le sembianze altrui. In questo modo, Talk to Me riesce a funzionare tanto da un versante puramente orrorifico, quanto su un piano più ambizioso, come ritratto sociale amaro che non sarebbe dispiaciuto a un Wes Craven. Il grande successo ipoteca naturalmente la possibilità di ulteriori prosecuzioni, con un prequel già annunciato, che espanderà la breve sequenza iniziale.