I loro nomi sono numeri, la loro storia è definita dalle azioni del presente, perché il passato se lo sono lasciato alle spalle fingendosi morti, in modo da poter compiere azioni in nome del bene e al di fuori dei legacci burocratici. L’assunto di 6 Underground è un’autentica dichiarazione d’intenti del Bay-pensiero, la ricerca di un grado zero della narrazione che consenta di sperimentare esclusivamente variazioni sulla messinscena dell’azione. Gli ormai celebri 20 minuti iniziali, con un pirotecnico inseguimento fra le vie di Firenze, è lì a testimoniarlo. Le auto dei sei protagonisti e dei loro inseguitori sbandano, derapano, riscrivono la topografia del capoluogo toscano e in un certo qual modo generano un curioso effetto di perpetuo “movimento/fermo”: è come se girassero in tondo in un’area relativamente delimitata, che però si espande non in virtù delle miglia colmate (come nelle metropoli americane), ma soltanto grazie alla perenne cinetica cui sono sottoposti corpi umani e meccanici. Siamo nel post-Transformers, e si rinnova un sospetto che sul cinema di Bay nutriamo da sempre: che sia perfettamente autoconsapevole del valore tematico dello “sperpero” di risorse come critica a quell’universo meramente esteriore che pure le sue inquadrature da ex pubblicitario celebrano senza sosta (qualcuno ricorda il sottovalutato Pain and Gain?).
Si tratta insomma di smontare mentre si costruisce e per questo motivo i livelli si intrecciano con una scioltezza ormai rara nel cinema americano abituato al conforto del noto, soprattutto nelle forme dell’action. Pertanto, da un lato il film è un preciso ossequio delle regole dello spy movie alla Bond o Mission: Impossible, di cui riprende il tocco glamour, il continuo cambio di location atto a restituire il senso di una narrazione globale, l’idea di un “supercattivo” da abbattere, i gadget tecnologici, quel “sexy vibe” promesso dall’autore. Ma allo stesso tempo è un gioco di forme che si annullano, immagina stati inventati, costruisce un “suo” mondo assemblando luoghi lontanissimi e utilizzando con sagacia la geografia urbana dove classico e moderno si uniscono e (con)fondono, la cupola del Bernini come i grattacieli di Dubai. È ancora il post-Transformers, la meccanizzazione umanizzata del mondo dove ogni elemento delle inquadrature è un possibile mezzo per una performance cinetica o fisica, un cinema-parkour che salta (letteralmente) fra i tetti e non si concede pause, in un perenne movimento che è tanto estenuante quanto esaltante.
Però, mentre la narrazione sembra pervasa da un moto quasi febbrile, emerge anche una vena differente: è un’umanità che preme ai margini e che descrive delle parabole per ognuno dei sei protagonisti. Bay illustra le loro storie attraverso dei flashback che si incastrano nell’azione senza mai perdere di vista il tono dell’insieme, interrogandosi continuamente sulle possibilità di raccontare attraverso le immagini, evitando il più possibile spiegoni o dialoghi “esplicativi” da serial di ultima generazione – lui che pure gira un film per Netflix, che probabilmente darà vita a una saga. L’agire dei personaggi fra le righe del reale, la loro natura di fantasmi della realtà fattuale, in nome di quella ideale, inizia così a tradire desideri, speranze, a mostrare possibilità affettive nuove, basate magari non sul pregresso, ma sul mondo che nel frattempo questi eroi hanno iniziato a ricostruire. La memoria è sostanzialmente esterna alle dinamiche di 6 Underground: i monumenti toscani sono irrisi, a tratti devastati, nel migliore dei casi usati come scenario per degli stunt, così come il lussuoso yacht Kismet o il ponte girevole di Taranto – la scena della sua apertura, che dal set in passato descrivevamo come un possibile momento topico, è “solo” uno dei tanti fuggevoli stunt divorati dal montaggio. E anche i legami non hanno un passato: il figlio che ama una madre malata che non lo riconosce, la coppia che si forma solo per attrazione e che non sembra avere prospettive, il capo che forse non sa nemmeno di avere una famiglia. Tutto si convoglia in una visione morale, che spingerà i sei a riappropriarsi progressivamente delle rispettive identità, così come il film che, dopo aver scomposto il mondo, ci restituirà infine un mosaico composito ma coerente.