Cinema italiano di taglio, trasversale rispetto alle prospettive espressive contemporanee di una cinematografia che finge di ricordare solo una parte della propria tradizione. Falchi appare sugli schermi come un miraggio, o forse anche come una cometa che segna la via, epifania di un filmare in trance e in transito, film sospeso su una visionarietà innamorata del cinema e sul sogno di una ritrovata quadratura di genere dai referenti ben precisi (Hong Kong, John Woo, Johnnie To e naturalmente Di Leo, il noir poliziesco, il poliziottesco…). Ma anche in transito sulle potenzialità di una produzione che tenta di riportare nelle dimensioni del grande schermo quella lezione che s’è andata ad incarnare nella serialità televisiva italiana internazionalmente riconosciuta, qui disincarnata nelle ragioni di un cast costruito sul rispecchiamento dei due “falchi” in cartellone: Fortunato Cerlino e Michele Riondino, attori di chiare qualità, in fuga dal Don Savastano di Gomorra e dal Giovane Montalbano. Quello di Toni D’Angelo, del resto, è un cinema di vibrazioni multiple, passionale nel suo rapporto con i sensi del filmare, con le traiettorie espressive, le modalità di approccio al significato del cinema popolare di chiave autoriale. E Falchi ne è la prova, nella sua divaricazione tra l’implosione psicologica dei personaggi (corpi introflessi alla Michael Mann o alla Johnnie To) e la formula del poliziesco italiano ritrovato a cavallo delle due ruote della Squadra Mobile nelle strade di una Napoli desaturata del suo appeal partenopeo: più una Hong Kong incisa nel riflessi al neon della notte che nelle sonorità dei vicoli. Il gomito a gomito che diviene faccia a faccia e gioco noir di chiara matrice, applicato a due agenti della squadra mobile alle prese con i propri fantasmi: Francesco (Riondino) si macera nel senso di colpa per un fatale errore commesso in servizio, cercando tra psicofarmaci e droghe il sollievo alla furia che cova dentro e trovando la tormentata pace nella storia d’amore con una massaggiatrice cinese incrociata nei bassi; Peppe (Cerlino) instilla la sua solitudine nel rapporto simbiotico con il mastino avuto in eredità dal capo dei Falchi (Peppe Del Bono), morto suicida per sfuggire alle indagini avviate sul suo operato. I due fanno squadra sulle due ruote della mobile, ma la debolezza di Francesco si traduce in una frattura che innesca il dramma: prigionieri del loro destino, i due metteranno in gioco la fiducia, l’amicizia, il cameratismo, gli innamoramenti, i tradimenti, le vie di fuga impossibili…
Toni D’Angelo maneggia gli stereotipi come tali, lasciandoli lievitare all’ombra di un dramma cupo, che finisce per prediligere la funzione introspettiva alla tensione dell’azione allo stato puro. Falchi osa sottrarre laddove i modelli attuali (televisivi) imporrebbero di aggiungere, scavando piuttosto nel rapporto tra gli spazi e l’azione, cercando un istintivo riscontro nel contrappunto tra il furore di Francesco e l’annichilimento di Peppe, tra la rabbia del primo e la stanchezza del secondo. D’Angelo trova soluzioni visive virtuosistiche nel sorreggere i piani con la forza dei campi, lavorando sul contrappunto cromatico, implicando le focali nel gioco delle profondità. E se il film sfarina la scrittura della sceneggiatura sino a trattenere davvero pochi elementi narrativi, che si potrebbero anche a ragione definire poveri o elementari, va detto che la qualità del film sta tutta nella sua pulsionalità cinematica, nel fragore dei rimandi, nella riconoscibilità di una parentela che è razionale ed emotiva. Sicché, badate bene, di fronte a un film come Falchi, il cappello vi dovete levare…