Teo è un pubblicitario che vive con leggerezza i sentmenti e non si lascia scappare nessuno stereotipo. Emma è un’osteopata, divenuta cieca all’età di diciessette anni che, invece, ha imparato a godere di ogni opportunità. Due persone che si incontrano e si cambiano reciprocamente l’esistenza, non senza passare, prima, attraverso il solito percorso di resistenze e rigidità. Per il suo nuovo film Il colore nascosto delle cose, Silvio Soldini torna a lavorare con Valeria Golino (che fu interprete vent’anni fa del sensibilissimo Le acrobate) e a ricreare con lei quella complicità necessaria, se si vuole che tutto funzioni, soprattutto quando il rischio retorico incombe e ci si muove su un territorio difficile da descrivere come quello dell’handicap sensoriale. L’essere cieca di Emma non è tanto la limitatezza del suo universo, quanto la “superficialità” di quello di tutti gli altri. Come se il vedere ci rendesse più apatici, incapaci di vibrare e capire i misteriosi meccanismi delle cose. Un punto di partenza affascinante e quanto mai azzeccato, per un film che si mette in gioco a partire proprio dalla sua restituzione dei sensi. Soldini non è nuovo a questi esperimenti, e non solo perché nel 2013 ha diretto il bel documentario Per altri occhi, ma perché da sempre il suo cinema è caratterizzato da un alto livello di ascolto dei personaggi che vuole raccontare. Per questo Teo è costruito a partire dall’esterno, da ciò che ci si aspetta da lui in termini di apparenza, una moto alla moda, una casa da copertina, un passato sfocato e relazioni facili, senza l’intoppo della responsabiltà.
L’attenzione va alla descrizione del microcosmo insospettabile di Emma che anzi, si svela via via con sorpresa, pudore e precisione. È solare e senza conti in sospeso con la vita, ma ha bisogno di ordine, nella concretezza della vita quotidiana e in quella dei sentimenti. Non a caso fa l’osteopata e riequilibra il disordine fisico ed emotivo toccando in silenzio spalle, braccia, gambe, mani, sfidando il pensiero comune secondo cui il tatto compensa la mancanza della vista: l’impianto su cui si basa il film è basato sulla convinzione che ci siano sensi a noi sconosciuti capaci di farci conoscere meglio il mondo e che la fragilità di una donna sia sinonimo di forza, piuttosto che di debolezza. Si riesce, così, a tracciare un percorso di normalità, senza accendere il tono drammatico e senza precipitare nella commedia (fatta eccezione per il finale, impostato e inutilmente retorico nella chiusura del cerchio). Un equilibrio elegante, che passa anche attraverso le parole, i discorsi, il giusto punto di vista ravvicinato – e per questo sempre parziale – del campo visivo, il contrasto, le profonde sfocature delle immagini. Un continuo interrogativo sulla visione e sul gesto del vedere, al punto da dare proprio ai colori un’importanza diversa, come fossero elementi significativi e costitutivi degli oggetti, e non solo la loro superficie. Che si possono toccare e riconoscere al tatto e sanno tradurre tangibilmente concetti apparentemente astratti come la vitalità e la fiducia.