Con uno sprezzo del pericolo ammirevole Ewan McGregor ha deciso di esordire alla regia affrontando American Pastoral di Philip Roth, probabilmente “il” romanzo americano della fine del secolo scorso (è uscito nel 1997). In realtà McGregor avrebbe dovuto solo interpretarlo, ma in due anni non si è trovato un regista disposto a dirigerlo, nemmeno Philip Noyce ci ha voluto provare e all’apparenza è sorprendente dato che si tratta(va) di uno dei suoi progetti più ricorrenti. La cosa avrebbe dovuto mettere in allarme il simpatico Ewan, fargli sorgere qualche dubbio. Invece lui ha deciso di passare direttamente dietro la macchina da presa e si è semplicemente schiantato. Non lo ha certo aiutato la sceneggiatura di John Romano (molta tv, da Hill Street Blues a Hell on Wheels, e Prima ti sposo, poi ti rovino dei Coen) che ha ridotto una cattedrale a un monolocale. Certo adattare al cinema la prosa di Roth è un’impresa improba. Va semplificata, scarnificata, nella speranza di trovare una chiave per una trama, un racconto che ricrei almeno in parte il clima della pagina. Invece il film è un impotente e trascurabile melodramma familiare, con un regista in costante difesa che non vuole rischiare nulla.
Cos’è il romanzo?
Detto in una riga American Pastoral (il romanzo) è un’affermazione, ovvero: l’impossibilità per gli ebrei di essere normali. Non c’è niente da fare: qualunque cosa faccia, qualunque sia il suo aspetto fisico, l’ebreo non riesce mai a sfuggire al suo destino di sofferenza. Seymour Levov (un McGregor/Seymour che stranamente ricorda il Bloom di Big Fish) è bello, biondo e atletico: al liceo lo chiamano “lo Svedese”. Gran sportivo è un idolo della squadra di baseball della Weequahic High School, e diventa con semplicità l’incarnazione stessa del natural americano, l’individuo intrinsecamente votato al successo. La sua è una vita piena di soddisfazioni professionali e di gioie familiari: negli anni Cinquanta sposa Miss New Jersey e si instrada a una vita di lavoro nella fabbrica di guanti del padre. Nella sua bella villa cresce Merry, la figlia balbuziente. Ma siamo al tramonto degli anni Sessanta e le contraddizioni generate anche dalla guerra in Vietnam stanno per esplodere anche in casa Levov. Così un giorno Merry (interpretata da una Dakota Fanning che pare l’unica in sintonia col mood della pagina) decide di “portare la guerra in casa” e piazza una bomba all’ufficio postale del paese di Old Rimrock. La pastorale americana scivola nella tragedia. Si assiste impotenti al crollo dello Svedese, alla progressiva caduta di tutti i suoi valori: lo sport, il lavoro, la famiglia. Sua moglie Dawn (Jennifer Connelly, attenta e dolente, che pare essere piaciuta molto allo stesso Roth) sprofonda nella depressione ed è costretta a curarsi; lo Svedese l’asseconda in tutto perché si sente in colpa, fin quando scopre che lei lo tradisce. Per l’ebreo non c’è scampo: nonostante tutti i suoi sforzi per assimilarsi alla società americana rimane sempre un corpo estraneo e fa una brutta fine. Nulla nella vita dello Svedese poteva far presagire un tale destino, nulla proprio nulla ripete Roth dall’inizio alla fine del romanzo. Eppure è successo: da tutta questa normalità, da tutta questa voglia di essere uguali agli altri in tutto e per tutto, è sbocciata e si e sviluppata la pianta della violenza. Per Roth ogni pastorale americana, ogni tranquilla provincia americana, nasconde nel suo seno una violenza inimmaginabile. Perché l’America è violenta, lo è sempre stata, e questa violenza come ci ha spesso ricordato William Burroughs era già lì, da sempre. La storia di questo novello Giobbe ce lo conferma.