Il mistero scorre sul fiume di Wei Shujun e l’impossibile verità

Anni ’90, villaggio di Banpo, Cina rurale. Una donna anziana viene uccisa e lasciata lungo la riva del fiume. La polizia accorre. A dare l’allarme un bambino che ha visto per primo il cadavere, ma non ha avuto paura e chiede agli investigatori di tenerlo informato. Presto il caso si trasforma in una questione politica: dimostrare ai superiori che la polizia locale è in grado di catturare l’assassino in tempi brevi. E così inizia una messinscena che presto divorerà ogni cosa, a partire dalla decisione di chiudere il cinema del villaggio (“tanto non ci va più nessuno”) e trasformarlo nell’ufficio della squadra investigativa. Il palco viene allestito con le scrivanie degli agenti, mentre la cabina di proiezione diventa l’ufficio del capitano Ma Zhe, appena trasferito da un’altra località. Dettegli che sembrano portare spunti di ironia in una storia che da principio si presenta come un giallo tradizionale, calato nella realtà degli anni Novanta del secolo scorso, ma che via via dimostrano un valore duplice e quasi beffardo. Il mistero scorre sul fiume, terzo lungometraggio di Wei Shujun, si ispira al racconto Errore in riva al fiume di Yu Hua (in Italia uscito all’interno della raccolta dal titolo Torture, Einaudi Editore), storia di una serie di omicidi, tutti avvenuti lungo un corso d’acqua, scritta nello stile letterario degli anni Ottanta e Novanta, “porta con sé temi molto attuali per l’epoca – spiega il regista – come il peso eccessivo dello spirito collettivo che grava sull’individuo e la solitudine di quest’ultimo di fronte a un mondo assurdo”.

 

 
Tutti elementi comuni all’adattamento cinematografico, a partire dalla scelta cromatica. Il film è stato girato in 16mm proprio per riflettere la pastosità appiccicosa di quei giorni, il senso di un’epoca percepita più lontana di quanto non sia realmente. Il titolo internazionale, Only the River Flows, ben descrive il ritmo del film e di una comunità addormentata e immobile, mentre custodisce misteri e segreti che nessuno saprà scalfire, neppure l’ossessione di Ma Zhe, che sa di trovarsi di fronte al vaso di Pandora e ci si perde, confondendo presto la realtà e l’allucinazione, la vita privata e quella professionale. Scava nella vita di molte persone e scopre dinamiche taciute sugli abitanti del villaggio, crea connessioni reali o ipotetiche, ma è impossibile stabilire quali abbiano legami con i delitti e quali siano completamente estranee ai fatti.

 

 
Abile e raffinato il lavoro di Wei Shujun nel sovrapporre i piani. Come due immagini proiettate contemporaneamente, come Ma Zhe davanti alle diapositive che osserva nell’oscurità, ipnotizzato da una realtà ingestibile e troppo contraddittoria. Il figlio atteso che potrebbe essere malato, l’opportunismo dei suoi superiori, la superficialità dell’intero sistema, l’oscurità del microcosmo in cui si trova a vivere. L’approccio realistico, in fondo, è una scelta di campo efficace, rappresenta il tessuto narrativo in cui incastonare elementi surreali, o meglio, eccedenti la normalità delle cose. Perché non tutto quello che scopriamo è reale ma non ci è dato poter distinguere tra i due livelli. E così, l’indagine arriva ad una sua conclusione artificiosa, eppure l’unica verosimile, sancita dalla cerimonia  finale di auto celebrazione, che si tiene nello stesso cinema. L’unica certezza resta nel fiume, che continua a scorrere, e nello sguardo di quel bambino dell’inizio, che ha visto/sa cose che non vedremo/sapremo mai.