Da una parte il fondatore della psicoanalisi; dall’altra uno scrittore e teologo che ha ricoperto posizioni accademiche a Oxford e Cambridge. Da una parte il pensiero illuminante e rivoluzionario, dall’altra l’enigma e l’incertezza della fede, vettore di una evidente irrazionalità e gratuito sentimentalismo. Così, se Freud è rappresentato e visto come il padre della psicoanalisi, responsabile di una vera rivoluzione culturale essendo anche portatore di uno sguardo che ha indagato il fenomeno religioso rifiutando e postulando che la fede in Dio fosse una mera superstizione o una sostituzione per un padre scomparso, C. S. Lewis è posizionato fragile e inerme, visto come paladino di quella finzione che ha innervato le sue opere letterarie, sbrigativamente etichettate come apologetica cristiana (Lewis era un caro amico di Tolkien e facevano parte dello stesso gruppo letterario informale di Oxford noto come Inklings, di lui si fa presto a citare le opere di fantasia e a tralasciare la più complessa saggistica). Non è mai accaduto che si incontrassero ma questo accade in Freud – L’ultima analisi di Matt Brown, adattamento cinematografico dell’omonimo dramma di Mark St. Germain, tratto dal saggio The Question of God di Armand Nicholi. Siamo a Londra, il 3 settembre 1939, quando il mondo è alle soglie della sua devastazione morale e l’Inghilterra ha dichiarato guerra alla Germania. Freud, ipnotica ma sbilanciata l’interpretazione di Anthony Hopkins che fagocita quella del “rivale” Lewis interpretato da uno statico Matthew Goode, altrove più convincente come in The Crown o Downton Abbey, convoca il brillante letterato per intavolare un dibattito sulle opinioni del giovane e sui danni, riflessi nelle atrocità naziste, che la fede indiscussa porta con sé.
Ma Lewis ha il coraggio di un convertito che ha vissuto anni nell’ateismo e tale singolare atteggiamento alimenta l’intensità delle affermazioni di un Freud segnato dal dolore anche causato dalla recente fuga da Vienna con la figlia (in cerca di appropriazione di identità). Mentre i due uomini si scontrano e si interrogano a turno su scienza, fede, amore, condizione umana e ciò che divide, e potrebbe eventualmente unire, le aspirazioni della mente e i bisogni dell’anima, il mondo si interroga sul proprio futuro con lo spettro di una guerra sempre più inevitabile. Come inevitabile è riconoscere un’evidente spaccatura sul piano della messa in scena, limite che in questa operazione rivela, al di là delle curiosità intellettuali o delle relative inclinazioni e preferenze verso l’una o l’altra prospettiva, un aspetto decisamente molto più interessante a proposito di come l’attualità di questa vicenda risuoni a noi, nel nostro tempo. Come dichiarato dallo stesso Goode: «Viviamo in un’epoca strana e surreale, ideologicamente polarizzata, siamo tutti bloccati nelle nostre “tribù”. Non c’è rispetto per i punti di vista degli altri, eppure un vero dialogo con gli altri è esattamente ciò di cui le persone sembrano avere sete. Nel film, abbiamo questi due titani con punti di vista diametralmente opposti che scelgono di combattere rispettosamente le loro differenze su Dio. La bellezza della storia è che, sebbene non ci siano risposte, è solo attraverso il dialogo che la crescita personale diventa possibile per ciascuno di loro».
Il confronto tra i due sguardi, e i mondi che essi ripropongono, è oltremodo impari. Sebbene la conversazione che Lewis instaura con Freud, che tocca non solo il teologo che presenta allo scienziato la “prova” di un Dio, ma anche entrambi alle prese con le orribili prove che accadono intorno a loro, il libero arbitrio dell’umanità e la complessità psicologica, sessuale e sociale della personalità umana, abbia la pretesa di scendere in profondità con affondi e scorci sul passato dei due uomini, sulle loro vite personali e sulla loro vita interiore, il film di Goode paga l’impostazione teatrale e l’uso di certe luci oniriche, la pesantezza di arredi che gonfiano l’aut aut razionale su cui si fonda la presunta speculazione dialogica, soffrendo di un marcato e inevitabile didascalismo e materialismo che tende alla semplificazione in favore di uno (Freud) a scapito dell’altro (Lewis). Vagamente nostalgica e tramortita da una struttura che incastra cronaca intima a flashback, l’operazione rischia di indebolirsi pur con tutte le buone intenzioni di innescare attraverso il kammerspiel una valida riflessione sul dramma interiore che ciascun uomo affronta nei confronti della propria esistenza, amplificando quell’idea di chiusura e soffocamento tipiche del genere. È sempre l’incontro con l’Altro a generare quella ricerca di senso e i due soggetti della vicenda ne erano consapevoli essendo stati, in modi diversi, cercatori di verità.