La nozione di “universo condiviso”, così come la stiamo accettando oggi, pone sfide critiche da non sottostimare, con la sua riscrittura del concetto d’autore: le istanze del singolo si piegano infatti a un disegno più grande, demandando la cifra stilistica generale a un’entità altra, sia essa un produttore-demiurgo (come può essere Kevin Feige per i Marvel Studios), oppure una sorta di sovra-regista che definisce i canoni estetico-narrativi del filone (Zack Snyder per il DCEU). Poi c’è il caso a parte del MonsterVerse della Legendary/Warner, che in sole due pellicole sembra essere riuscito a coniugare l’autorialità delle singole pellicole al disegno generale: Kong: Skull Island e Godzilla, pur rispettando la tradizione dei progenitori della RKO e della Toho, sono anche film sono molto diversi fra loro, che si collocano perfettamente nel disegno autoriale portato avanti autonomamente da Jordan Vogt-Roberts e Gareth Edwards (anzi, quest’ultimo è poi apparso più “snaturato” quando si è imbarcato nell’impresa di Rogue One).
Il punto sta tutto nell’individuare quindi chi o cosa definisca la cifra particolare dell’universo di volta in volta sotto i riflettori. Nel caso del “Dark Universe” che si va a inaugurare con La mummia, a fare da garante è la tradizione mostruosa del marchio Universal, primo autentico universo condiviso della storia del cinema, inaugurato con Dracula nel 1931, che per questo non dovrebbe presentare timori di subalternità rispetto alla concorrenza. L’evidenza mostra però il contrario: l’esigenza di un collante che esibisca la continuity fra le varie pellicole, già reca tracce di una derivazione supereroistica palesata dall’organizzazione segreta Prodigium e dal bizzarro finale con l’ibrido uomo-mummia che si lancia in nuove avventure, facendo presagire la creazione di una possibile “squadra di mostri” al soldo della giustizia. Allo stesso tempo, la vena cinefila tipica di Alex Kurtzman (che conosciamo innanzitutto come sceneggiatore per i primi Transformers e Star Trek) pesca da un immaginario composito, che va al di là dei modelli, e affastella le derive labirintiche del carpenteriano Il seme della follia, la commistione fra orrore e commedia di Un lupo mannaro americano a Londra e gli zombi-templari di Amando De Ossorio. Su tutti, però, predomina un’esigenza di transizione dall’horror al formato blockbuster che la casa americana ha già cercato di forgiare negli anni, attraverso gli esperimenti malriusciti de La mummia (quella del 1999), Van Helsing, Wolfman e Dracula Untold. A perderci, insomma, è proprio quella tradizione invocata come un marchio di garanzia, dispersa in mille rivoli narrativi autonomi e che palesa uno dei problemi cronici di questi universi: l’incapacità assoluta di creare forme estetiche nuove e formule narrative originali. Produttori e registi si affidano insomma alla riconoscibilità di un immaginario sedimentato e la cui gittata non va più in là di un trentennio. Cosa rimane quindi della tradizione Universal classica ne La Mummia versione 2017? Poco o nulla. C’è la capacità di aggiornarne il mito al presente? C’è di che essere dubbiosi in merito. È evidente invece la derivazione dai percorsi Marvel/DC e dai precedenti tentativi mostruosi, con un’eccessiva derivazione che porta a un ibrido goffo.
Scavando fra le pieghe, tuttavia, emergono alcuni elementi degni di nota: innanzitutto la variazione prospettica data dalla nuova mummia al femminile, che aggiunge in questo modo alla dinamica oppositiva del mostro originale (capace di generare orrore, ma anche pietà per la sua condizione) l’inedito elemento della sensualità e di una certa qual natura sinuosa e serpeggiante: merito dell’astro emergente di Sofia Boutella, che già in Kingsman – Secret Service riusciva a imporre una presenza forte e in grado di scandire i tempi del racconto. E poi c’è l’ennesimo esercizio di coerenza di Tom Cruise, che da un lato decostruisce il suo classico personaggio eroico sottoponendosi a un tipico “percorso di formazione”, da canaglia disillusa ad avventuriero altruista; e poi, per contro, si conferma invece corpo trasparente per eccellenza del cinema americano, sempre in bilico fra una natura estremamente fisica determinata dai suoi stunt eseguiti senza controfigura, e una certa qualità incorporea, in equilibrio fra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi – qui è una sorta di “morto vivente” conteso fra una collega viva e la millenaria creatura emersa dalle Piramidi. Il tutto è forse sintetizzato dalla natura duale di Russel Crowe/Jekyll-Hyde che dona alla sua Prodigium una certa natura chiaroscurale. Gli attori e la loro capacità di giocare con il proprio potenziale iconico rappresentano perciò l’unico punto a favore dell’operazione. Manca il resto, manca il cinema e la capacità di imporre un’idea coesa e definita, lontana dalle lusinghe dello spettacolo di massa e più vicina alle promesse “dark” del nuovo marchio. Aspettiamo in tal senso le annunciate pellicole a budget più ridotto, realizzate in tandem con la Blumhouse, casa che certamente potrà garantire riduzione delle velleità spettacolari per scavare nella cifra più oscura del genere.