La questione performativa è ormai parte integrante del cinema di Terrence Malick. Un progetto come Voyage of Time ne è la conferma, col suo definitivo affidarsi alla scansione di un’immagine che occupa per intero l’esistente. Producono National Geographic ed IMAX, e quella che abbiamo visto a Venezia 73 è la versione lunga (90’) del film, quella destinata alla sala, con la voce narrante di Cate Blanchett che, per dirla con le note di produzione, “takes the audience on a poeticjourney full of open questions”… Per gli schermi IMAX sarà invece approntata una versione di 45’, dal titolo Voyage of Time: The IMAX Experience, che è annunciata come una “giant-screen adventure for audiences of allages”, con la voce narrante di Brad Pitt… Lo spettacolo sta in sé, nella sua pulsione eccezionale, nella altezza del miraggio che puoi toccare con mano: siamo insomma alle prese con un cinema tornato alla sua funzione “mostrativa”, scandito in assenza di distorsioni narrative, semplice pulsione panoramica da inizio ‘900, proiettata nella decadenza delle nostre badlands da provincia dell’universo.
Finalmente, vien da dire, ché qui Malick scagiona i viventi dalle loro colpe psicologiche, li libera dal peso di essere personaggi, di materializzare i loro destini in questioni familiari, in contorcimenti esistenziali, in storie. Il flusso è puramente immaginifico, disperso o magari anche trovato nella visione assoluta di un Tempo e uno di Spazio che riflettono la Vita in Sé, la Natura, quella Madre cui la voce narrante di Cate Blanchett rivolge le fatidiche domande eterne, quelle che a ridirle qui suonano di sicuro ridicole, ma nel rullare delle immagini palingenetiche che compone questo Voyage of Time ci stanno pure, con tutta l’impostazione recitativa che si portano dietro, con buona pace della Blanchett o di Brad Pitt… Il punto è che Malick qui va dritto al punto, sta focalizzato sull’obiettivo di tutto il suo cinema a seguire The New World : chiedere perdono al paradiso perduto, cercare una via d’accesso alla Visione che corrisponda all’eternità di un tempo smarrito. E qui finalmente si concede al confronto con la palingenesi cinematografica per eccellenza, quella kubrickiana di 2001 Odissea nello spazio, di cui Voyage of Time è la mise en abyme concettuale, la dispersione definitiva in senso inverso: la tocca con un dito, la cita e la insegue ovviamente senza afferrarla davvero. Perché come tutto il cinema di visione, anche Voyage of Time nasce fallendo il suo mandato, disperdendo le sue energie nel getto eiaculatorio della luce, che tutto bagna senza poter creare davvero…