La voce del padre: Luce di Luzi e Bellino, in concorso a Locarno77

Il martello batte il chiodo sull’anta di un armadio, dettaglio che scava la penombra dell’ossessione mentre il suono esplode a ogni colpo, mirato a sigillare lo scheletro della relazione mancante: Luce, finalmente l’opera seconda di Silvia Luzi e Luca Bellino (in Concorso a Locarno77), inizia così, con un padre che non c’è e una figlia che lo inchioda ai resti della sua assenza. Ma questo lo capiremo più avanti, perché Luzi e Bellino sono autori che la verità te la fanno conquistare scavando con le mani nella materia implicita delle loro immagini, lavorando accanto ai loro personaggi, spostando gli oggetti che occupano la scena, alzando il velo di vissuti nascosti. Pochi registi ti fanno stare dentro i film come loro, ti chiedono di usare la tua energia per lavorare con loro alla definizione di una relazione che non è mai data per scontata. Prendete Luce, per esempio: la prima scena è un totale da cerimonia, una famiglia di prima comunione in posa davanti all’obiettivo di un fotografo, due ragazzini si divertono a impallare la scena, il campo si restringe lentamente e lo stacco è su lei, la Figlia, poco più di vent’anni, stretta nel suo cappotto, sguardo perso tra un certo distacco un po’ annoiato e la tristezza vagamente combattiva di chi ha tanto da recriminare. Non ha nome la Figlia, almeno così pare, perché non ha un Padre: non c’era alla sua prima comunione come non c’è ora e la sua assenza è quel chiodo fisso che abbiamo visto martellare nell’incipit e che la ossessiona anche adesso, mentre vede il fotografo che sulla spiaggia riprende con un drone la ragazzina felice.

 

 

L’idea folgora la sua inquietudine e quella sera la Figlia convince il fotografo ad aiutarla a scavalcare col drone il recinto della prigione per consegnare un telefono e un numero a quel padre che praticamente non conosce. Tutto qui: Luce è la conseguenza di questa azione, il progressivo distaccamento della Figlia dalla sua realtà, giornate di lavoro in una conceria, attaccata alla linea assieme alle colleghe, e poi le telefonate prima silenziose, poi sempre più loquaci di un uomo che è il Padre, o almeno così dice. Luzi e Bellino stanno nella narrazione di una unità ritrovata nella distanza, ma definiscono anche l’elaborazione di una fantasia che resta astratta, vocalizzi di sentimenti surrogati, che non possono essere veri perché mancano del contatto, sono brandelli di pelle staccati dalla carne, come quelli che ogni giorno la Figlia stende sulla linea, a lavoro. Luce sta quasi a invertire il movimento su cui si era chiuso Il cratere, a risarcire la Figlia di quella fuga dal Padre che proiettava in lei il suo futuro mancato. Lì le telecamere di sorveglianza definivano il perimetro della prigionia domestica della protagonista, qui il drone che si libra in volo libera il Padre dalla sua prigione, restituisce la voce al silenzio della sua assenza… Quella che era l’ossessione di un padre per la figlia s’è trasformata in Luce nell’ossessione di una figlia per il padre: la voce resta questione centrale, il canto nel Cratere, qui la parola. L’opposizione è la vera dinamica affettiva, funzione di una reciprocità che struttura la relazione ma non la costruisce davvero, se non nell’ipotesi di una vicinanza non sempre realizzabile, di una compenetrazione che sta nel vedersi davvero.

 

 

Questo del resto è un film sul lavoro dei sensi, sulla loro (in)capacità di definire veramente la realtà: annusare gli abiti in cerca di un odore, toccare la pelle, sentire la voce di un Padre che non si può vedere, non vedere lo sguardo di chi ti sta guardando… La reciprocità mancata è il dramma e la sua figura nodale è il Fotografo, che restituisce lo sguardo alla Figlia, offre la voce al Padre e soprattutto cerca una relazione che la ragazza nega: ipotesi di realtà che si presenta alla vita astratta, sospesa, interrotta della Figlia…Luzi e Bellino infatti stringono coraggiosamente il campo sul primo piano perenne della protagonista, affidandosi a Marianna Fontana con una fiducia e una generosità ricambiate da una prestazione assoluta, verità dei sentimenti lavorati a caldo, senza nessuno stratagemma drammaturgico ma con la precisione di una sensibilità sorprendente. L’attenzione è tutta su di lei, la profondità di campo azzera gli sfondi, sfoca il mondo di questa ragazza chiusa in se stessa, nella sua ossessiva solitudine. Solo nella seconda parte la realtà riconquista il suo spazio, quando la gatta fugge di casa (come Sharon nel finale del Cratere…) e la Figlia sembra liberarsi dalla sua prigionia sentimentale. Il controcampo è offerto dalla voce del Padre, che è quella sorprendente di Tommaso Ragno, presenza fantasmatica e fondamentale, con il suo linguaggio caldo, con l’impasto dialettale che crea per il suo personaggio invisibile una narrazione vocale, una affabulazione tutta sonora…

 

 

Luce di Luzi e Bellino sul website di Locarno77