Una scimmia nei panni di Robbie Williams. Non un’idea bislacca bensì geniale, un’astrazione che riflette il modo in cui la popstar britannica si percepisce o, quantomeno, afferma di percepirsi: come una creatura che non ha portato a termine il percorso evolutivo e risulta incapace di relazionarsi con gli altri, oltre ad essere – aggiungiamo noi – costantemente in bilico tra i due opposti poli del deficit di autostima e della smisurata esaltazione. Per questo, in Better Man, biopic che ripercorre la traiettoria artistica ed esistenziale di Robbie, l’australiano Michael Gracey – affezionato a opere di ambientazione musicale, sia come regista (The Greatest Showman, Pink: All I Know So Far) che come produttore (Rocketman) – lo rapppresenta nella pelliccia di uno scimpanzé, che poi è l’attore Jonno Davies digitalmente trasformato, ma che di suo ci mette la fedelissima riproduzione di movenze, postura e mimica del cantante. Pur rispettando una sommaria cronologia, Gracey non se ne fa imbrigliare, optando per un racconto fluido che corre a marce alte ed è costantemente (e consapevolmente) sopra le righe, esattamente come l’istrionico Robbie. È la storia di un ragazzo della provincia inglese che sognava di essere Frank Sinatra, l’idolo di quel padre che abbandonò casa e famiglia per cercare nuovi stimoli su un palcoscenico. Un adolescente che si ritrova arruolato – dopo un’audace quanto fortunata audizione a Manchester – in una boy-band che imprevedibilmente ottiene un successo stratosferico, ma nella quale il nostro si sente (ed è visto dagli altri) come un corpo estraneo, anche perché la componente creativa viene riconosciuta solo al talentuoso leader Gary Barlow, l’unico che secondo gli addetti ai lavori è destinato a traguardi ancora maggiori.
Per contro Robbie, il più giovane di tutti, che a soli sedici anni ha lasciato la scuola per fare il cantante a tempo pieno, è prontamente identificato come “la scheggia impazzita”, il bulletto del sodalizio, che pare tuttavia divertirsi più di tutti. Perfino troppo, visto che gli eccessi in ogni campo (droghe, alcol, donne) gli fanno perdere il contatto con la realtà, mentre il suo progressivo distacco dalla band sfocia nell’urgenza di andarsene, che lui stesso, a posteriori, ha definito così: “Mi sentivo come se fossi una specie di edificio in fiamme e avessi bisogno di scappare”. La separazione dalla band – che precede di poco lo scioglimento, nel 1996, degli stessi Take That, che si riuniranno nuovamente nel 2005 – avviene dunque in modo naturale, senza sussulti, almeno per quanto riguarda Robbie e compagni (mentre è vissuta come una tragedia dai fan). Alla dimensione collettiva subentra quella solista, assai faticosa in principio, poi baciata da riscontri sempre maggiori. Ma di pari passo con la consacrazione personale, la cui portata presto oscura quella vissuta in gruppo, Robbie si dimostra immaturi nel gestire gli effetti della notorietà, con l’ansia (anche da prestazione) che si impadronisce di lui. Eppure, non c’è caduta né passo falso che ne smorzi la voglia di vivere a modo suo o ne affossi l’aspirazione a diventare “un uomo migliore”, come vuole il titolo. Tanto che, raggiunta un’accettabile stabilità, Robbie ha fatto pace con il passato, dunque con i Take That (regolando a sorpresa i conti con Barlow, prima di farlo con gli altri) e con il genitore, due situazioni raccontate (in maniera sintetica la prima, estesa la seconda) nel commovente finale di Better Man, magari un po’ eccessivo, ma capace di evitare derive encomiastiche.
L’espediente drammaturgico alla base del film ne rappresenta il punto di forza e al contempo la principale debolezza: da un lato è trovata che spiazza, permettendo di superare le consuete aspettative di (vero)somiglianza e aderenza fisica dell’attore al personaggio, aprendo a inediti orizzonti di libertà espressiva; ma dall’altro, a giudicare anche da certe reazioni in sala, risulta per alcuni spettatori respingente, un sentimento che in altri (che probabilmente al cinema nemmeno ci sono andati) è generato dallo stesso Williams, personaggio che nonostante sia dotato di magnetismo animale non è considerato un mostro…di simpatia. Ed è un peccato, perché il film, anche se non particolarmente innovativo sul piano del racconto, risulta convincente nella rappresentazione, oltre che della parabola dell’artista, del suo lampante desiderio di una propria personalissima “normalità”, tanto da chiedere al regista di sottolineare la fragilità nascosta sotto la sua ribalderia, nonché riconoscendola egli stesso a gran voce. D’altronde, anche una volta che in scena c’è Robbie al massimo della celebrità, il protagonista continua a vedere il proprio alter ego scimmiesco tra la folla, indizio di come ritenga ineludibile il suo dark side, con il quale convive ora più serenamente che in passato. Notevoli in termini assoluti, sono invece tanto il serratissimo montaggio che la colonna sonora, con quest’ultima che, dal repertorio del performer, seleziona materiale autoctono e intramontabili standard, di fatto solo gemme, senza una nota sbagliata.