L’invenzione di forme narcisistiche in Valley of the Gods di Lech Majewski

Lech Majewski, regista e pittore, di certo prova a costruire il suo cinema attorno ad un’idea di bellezza estetica sempre spinta, sempre estrema, che deve rispondere ai canoni di una compunta perfezione. Un talento che gli deriva dalla sua arte pittorica per la quale celebrazione ulteriore aveva scelto, nel suo film precedente I colori della passione (2011) e forse il più noto tra il pubblico, un singolare soggetto, quello di raccontare l’ideale storia di alcuni dei personaggi del famoso quadro di Pieter Brugel il Vecchio, Salita al Calvario. In quel film, dal sapore sicuramente teorico, ma anche eminentemente dimostrativo di una sorta di esibizione della trasposizione del dipinto attraverso le complicate tecniche cinematografiche, Majewski affermava le sue qualità interpretative della pittura che più amava e al contempo sapeva ricreare l’atmosfera dell’epoca, sulle linee cromatiche dell’artista fiammingo. L’operazione, pur estrema, viveva dentro una sua ragione, che non era solo quella di sezionare l’opera di Brugel, ma anche di raccontare un pezzo di storia e di imbastire uno sguardo che fosse interno al dipinto, in una sorta di 3D ante litteram e di filtrare attraverso la mente dell’artista, le sue ansie e preoccupazioni, il formarsi dell’opera d’arte. Valley of  the Gods estremizza ancora di più quell’operazione puramente intellettuale, rarefacendo ancora di più l’ambiente dentro il quale opera, ma senza riuscire a finalizzare il lavoro dentro uno spazio interpretativo chiaro, se non l’ulteriore esibizione di una maniera, che resta immobile sullo schermo e nello sguardo.

 

 

Questo film, già finito nel 2019, sarebbe potuto passare nei circuiti on demand delle mille piattaforme che nell’era pandemica hanno affollato ogni angolo della rete, croce e delizia degli appassionati. Majewski, che è anche produttore, si è rifiutato, pretendendo, invece, la classica distribuzione in sala. Il che costituisce una dimostrazione del fatto che la ricerca estetica per il regista polacco diventi una delle ragioni per le quali lavora con il cinema e dal suo punto di vista, dunque, giustamente pretende che il pubblico possa godere della sua ricerca e soprattutto dei suoi risultati nelle migliori condizioni possibili. Majewski, per esibire le sue capacità estetiche, mette in piedi una vicenda che vede come protagonisti: uno scrittore in crisi coniugale, che cerca ispirazione per il suo romanzo nella Valle degli Dei, territorio dei Navajo; Tauros, l’uomo più ricco del mondo, che vive in un palazzo che dire sontuoso è quasi fare un’offesa, annientato dalla morte della moglie e della figlia, prova a fare rivivere la prima attraverso una sua possibile sosia; e, infine, ovviamente i Navajo che vivono di riti e magie, ma sono assediati da una compagnia mineraria e anche da Tauros, che vogliono avere diritti su quel territorio sacro per i nativi, per estrarre l’uranio, promettendo prosperità economica alla popolazione indigena.

 

 

Su questa vicenda a metà tra il fantastico e il reale, in verità senza nessuna vera comunicazione tra i due registri se non le immagini che si susseguono, Majewski vorrebbe inventare un mondo ulteriore, governato da leggi oscure e invisibili, da riti e volontà che diventano forma vivente del desiderio, supposte genialità da ricchi e demoni interiori che consumano la vita dei pellerossa, già consumata di suo. In altre parole Majewski, fa di tutto per mescolare le carte: lo scrittore che è chiamato dal ricco nella sua maestosa dimora dove però giù nelle segrete tiene prigionieri uomini e donne dediti ciascuno ad un lavoro o ad un’arte, indiani d’America che accusano la propria moglie incapace di dare un figlio, rocce magiche e tempeste elettriche, che estremizzano le visioni notturne della valle tra la silhouette delle pietre che si innalzano al cielo. In altre parole una potente magniloquenza che appesantisce la visione e disperde il poco capitale del film. Lech Majewski porta a termine un’operazione sostanzialmente estetizzante, in cui lo stesso estetismo sembra gratificarsi nello specchio del cinema della propria bellezza, in una specie di ininterrotto delirio narcisistico che affiora a poco a poco e si disperde come il fumo (negli occhi affaticati dello spettatore). Un merito però va riconosciuto al regista polacco, il coraggio di inventare forme di esibizione assolutamente inusuali dentro una variazione di toni e di strutture che potrebbero approdare ad una superfetazione dell’immaginazione come forma di una prova d’artista. Ma il suo, neppure quello precedente, può essere classificato come cinema d’arte, quanto piuttosto cinema che coniuga l’arte nelle sue varie espressioni, ma tutto resta nella diaspora del pensiero del suo autore e non sa trovare quella necessaria organicità che fa vivere di se stessa l’opera d’arte.