Inizia con una scena d’amore, in un’atmosfera un po’ sospesa tra fiaba e realtà, come a volerci ricordare che le storie di lupi sono, innanzitutto, una questione di mito. Ma poi c’è il mondo con le sue regole, sintetizzate non tanto dall’abbandono dell’uomo, quanto dallo stacco repentino nella tavola calda dove ha trovato lavoro Emilie, la donna del prologo, nel frattempo diventata madre. Il figlio Martin, però, è in piena crisi pre-adolescenziale, litiga con chiunque, nella convinzione di essere mal voluto e così Emilie prende il coraggio a due mani di presentarlo ai nonni paterni, nella loro sfarzosa tenuta fra i vigneti. Qui Wolfkin rilancia l’interessante rovesciamento prospettico che si enunciava all’inizio, con la caduta nella realtà: quella formata da una genìa di lupi mannari che non aderiscono al classico modello sottoproletario di tante pellicole del genere. Una vera e propria casta, che nel cuore dell’Europa fa quadrato e si preserva, tra pozioni per impedire la metamorfosi e battute di caccia (ai profughi in fuga tra i vari confini) per saziare gli appetiti di carne. Una metafora sociale e politica per descrivere una maledizione che è desiderio di aderenza a un modello altro. Più dei fieri vampiri o degli inconsapevoli zombie, i werevolves anelano insomma alla condizione di “normalità” dell’essere umano e in questo modo tentano di riprodurne una distorta parodia della perfezione, tra rigide regole del protocollo e funzioni religiose, le quali altro non fanno che aumentare la cifra alienante del contesto. Perché ovviamente, in filigrana, si vedono i disequilibri del mondo, l’idea delle élite che rivendicano il diritto a una supremazia tipica di un ordine, ancora una volta, rovesciato.
Jacques Molitor (che oltre a dirigere scrive anche, insieme a Régine Abadia e Magali Negroni) comprende bene, comunque, che l’allontanamento dal modello classico dell’uomo lupo passa anche per un sotterraneo riflusso che lasci tornare indietro a un certo punto le istanze primarie. Ovvero quelle della bestialità, della violenza (anche domestica verso chi non rispetta il “nuovo ordine”) e della ribellione. Incarnata in questo caso proprio da Martin, nelle cui vene scorre il sangue di un padre che quella famiglia l’ha abbandonata, in una sorta di ideale edenico di ritorno alla natura. Se la casa è insomma modello sociale, la natura preme ai fianchi di una condizione animale intrinseca al mito stesso, che anela perciò il ritorno nei boschi. La distinzione in classi (gli umani in casa e le bestie in gabbia o esiliate fra gli alberi) è perciò irrimediabilmente minata alle fondamenta. Intanto però i due protagonisti vivono il confronto, barcamenandosi tra le divisioni più o meno interiori. Per Martin c’è infatti il desiderio di essere accettato, di trovare finalmente una sua dimensione familiare completa, fino a quel momento negatagli dalla convinzione di essere solo e privo di affetti – tanto alla mamma quanto ai nonni appena conosciuti chiede sempre se gli vogliono bene.
Per Elaine, invece, c’è un’indagine sul suo ruolo di madre e sulla subalternità che la nuova famiglia le impone, veicolata in particolare dal violento cognato. In mezzo c’è il rapporto madre-figlio, che deve trovare una nuova ragione d’essere di fronte al mutato contesto. Tema, quest’ultimo, che Molitor aveva già esplorato nel precedente Mammejong, incentrato sulla difficoltà di recidere il legame tra una donna il figlio. Temi importanti, che Wolfkin affronta attraverso le carte del genere, cercando una tensione serpeggiante e a carburazione lenta ma inesorabile, in linea con una certa idea di horror autoriale (stile certi prodotti della A24). La capacità di creare empatia con i personaggi – complice in particolare l’ottima performance della protagonista Louise Manteau – riesce a generare interesse, nonostante un finale un po’ affrettato nella ricerca di quell’esplosione spettacolare fino a quel momento sempre tenuta a bada.