Nel wrestling messicano ci sono i tecnicos, ci sono i rudos e ci sono gli exoticos. Buoni, cattivi ed esotici… da sempre, questi ultimi, lottatori travestiti da donna dalle movenze grottesche e caricaturali, specificamente designati a rafforzare gli stereotipi omofobi. Figure da insultare e sbeffeggiare, destinate a priori alla sconfitta contro avversari virili e fieramente etero. Almeno fino all’ascesa di Cassandro. Saúl Armendáriz, in arte Cassandro, è il wrestler gay che nei primi anni ’90 ha rivoluzionato la lucha libre togliendosi l’iconica maschera e affrontando i match non scoprendo solo il proprio volto ma affermando orgogliosamente, nella sua totalità, la propria natura.Interpretato da un brillante Gael García Bernal, Cassandro è il biopic che Roger Ross Williams – primo regista afroamericano a vincere un Oscar, per il documentario Music for Prudence, nel 2010 – dedica a questa figura iconica: Saúl vive al El Paso, Texas, con l’adorata madre Yocasta (Perla de la Rosa) ma attraversa sovente il confine per combattere a Ciudad Juárez sotto lo pseudonimo di El Topo, un cattivo a cui i promotori, vista anche la sua piccola statura, impongono costantemente di perdere contro avversari mastodontici dai nomi emblematici come Gigántico. È l’allenatrice di Saúl, Sabrina (Roberta Colindrez), anch’essa lottatrice, a suggerirgli di combattere come exótico. All’inizio Saúl non è entusiasta dell’idea: tanto per cominciare, gli exóticos perdono sempre. Ma Saúl non vuole più perdere. Ed è anche stanco di dover nascondere la propria relazione con un altro lottatore, Gerardo, in arte El comandante (interpretato da Raúl Castillo, il Richie della serie Looking) il quale, al contrario, non intende uscire allo scoperto per timore delle certe ripercussioni discriminatorie da parte di un ambiente tradizionalmente e radicalmente omofobo.
Quando Saúl sale sul ring per la prima volta nei panni di Cassandro, accompagnato da una versione messicana di I Will Survive di Gloria Gaynor, indossa un body leopardato cucito a mano con stralci di un vestito della madre. Il suo personaggio è apertamente gay, fiero e potente. La folla, dapprima confusa, si scalda al suo carisma e scoppia a ridere quando questo inedito exotico si struscia ironicamente contro il suo avversario. L’attenzione di tutti si concentra sulle qualità che hanno reso Armendáriz un pioniere: solarità, grinta, passione per il suo sport e un’infrangibile fiducia nell’essere autenticamente sé stesso. Si potrebbe pensare che la velocità con cui nel film Cassandro conquista il pubblico, locale prima, nazionale e internazionale poi, contraddica forse un poco l’intensità dell’omofobia che Saúl deve aver affrontato nella vita reale. Ma la scelta di Ross Williams – che già nel 2016 aveva realizzato un documentario su Armendáriz, The Man Without a Mask – risulta sensata nell’ottica della presentazione di un modello ispirazionale concretamente perseguibile, al netto delle difficoltà. Lo evinciamo anche dalla messa a fuoco selettiva, a profondità di campo ridotta, che si focalizza in tutto e per tutto sul protagonista. Le bellissime musiche di Marcelo Zavros coadiuvano lo spessore emotivo della quotidiana lotta di Saúl nell’affermazione del suo ruolo nel mondo della lucha libre, nonché la sensazione della possibilità di un evento negativo che serpeggia ma mai si realizza. La scelta di far interpretare El Hijo del Santo (uno dei luchador più famosi al mondo) al vero El Hijo del Santo incunea la dimensione rappresentativa in quella reale (o viceversa) in maniera tale da restituire allo spettatore l’importanza che figure come quelle di Armendáriz/Cassandro hanno nel tracciare percorsi di ribaltamento di convenzioni sociali intrise di pregiudizio.