È diventata ormai da molti anni il re Mida della recitazione: ogni ruolo che attraversa, piccolo o grande, semplice o complesso, caricaturale o sfaccettato, finisce per prendere vita. Una vita rotonda, sempre chiaroscurata, che si impone allo spettatore come un evento plausibile. Stiamo parlando naturalmente di Meryl Streep, che è da decenni (dal 1977 di Julia di Fred Zinnemann, ma soprattutto da Il cacciatore di Michael Cimino dell’anno seguente) una vera e propria ambasciatrice del cinema, l’attrice che la gente va a vedere anche senza sapere nient’altro del cast e della trama del film in cui recita. Quella che ha avuto un numero imbarazzante di candidature agli Oscar (19, di cui 3 vinti) e ai Golden Globe (29, di cui 9 vinti), più mille altri premi e onorificenze. Insomma, la più grande amica di ogni spettatore, quella che lo porta per mano in sala, che con pochi movimenti facciali lo trasporta dentro l’emotività del personaggio, rinnovando a ogni film la magia del cinema più classico, nonostante gli elementi conclamati di crisi dell’industria e l’irreversibile perdita dei nuovi pubblici.
Dal 22 dicembre è in sala con un film delizioso, sebbene non un capolavoro: Florence di Stephen Frears, straordinario regista di attori e specialista del cinema al femminile (ricordiamo solo, tra gli ultimi lavori: Lady Henderson presenta, The Queen, Chéri, Tamara Drewe, Una ragazza a Las Vegas e Philomena). La storia è quella reale, sebbene impreziosita con qualche pennellata di romanzesco, di Florence Foster Jenkins, classe 1868, aspirante pianista e cantante lirica, animatrice infaticabile dei circoli musicali di Philadelphia e New York fino alla morte, avvenuta nel 1944. Una vicenda tragicomica, minata dalla malattia (la sifilide passata alla ricca ereditiera dal primo marito, che le diede problemi ai nervi e alle articolazioni, che posero fine alla sua carriera di pianista), dall’assenza di talento (la voce stonata e dal timbro sgraziato), ma anche sostenuta da una quantità straordinaria di forza di vivere e di ottimismo, che condussero la Jenkins fino all’apice della sua “carriera”, il 25 ottobre del 1944, quando si esibì al Carnegie Hall di New York, tempio della musica e del canto.
Meryl Streep ci restituisce la carica vitale impareggiabile del personaggio, la sua insopprimibile fiducia in se stessa, il senso di solitudine profonda che la deve avere accompagnata per tutta la vita e qualche increspatura di dubbio. Hugh Grant le fa da spalla interpretando mirabilmente il ruolo del compagno St. Clair Bayfield, attore shakespeariano fallito, complice di una delle più grandi finzioni della storia della musica, ma allo stesso tempo anima compagna, premurosa oltre che interessata, animata da una pietas commovente.