Il grado di separazione tra l’immagine e il suo tempo passa per l’esposizione, è questione di diaframma, dunque di modulazione della luce, di separazione tra il mondo e la camera oscura. Lo sa bene Ben Rivers, che gira Bogancloch in pellicola (16mm, anamorfico, 24 ftp) e dice che è un film senza esposizione, come dire che ha lasciato che il rapporto tra spazio e tempo, tra luce e ombra, tra il mondo e l’oscurità della camera dimenticasse il filtro del diaframma, si liberasse dello strumento della separazione… Questione interessante per un filmmaker che documenta il tempo e porta in concorso a Locarno77 un film come Bogancloch, in cui ritrova a dodici anni di distanza Jake Williams, il moderno eremita scozzese che aveva raccontato in Two Years at Sea. La sua separatezza dal mondo, il suo vivere da solo nel cuore di una foresta scozzese, in un posto che dà il suo nome a questo film, è la traccia da mostrare e superare. Il bianco e nero sgranato nel lavorio della luce sul supporto analogico, lo sfarfallio dell’esposizione instabile, i fade in e i fade out in camera sono la materia grezza di un filmare che connette la figura con il mondo secondo una manualità che incide il tempo e lo spazio della verità della relazione. Soprattutto se l’intento che dichiari è quello di raccontare di nuovo un personaggio che nel film precedente aveva lasciato il segno di una inesatta misantropia, di un rifiuto del mondo che in realtà era solo necessità di ritiro. E allora Ben Rivers è tornato a Jake Williams per raccontare la sua connessione con la solitudine, ma anche con la natura e con gli altri: incontri con studenti, il coro di una vicina festa che gli fa visita di notte…
Bogancloch diffonde un fremito vitale continuo e articola un silenzio che non è ascolto ma pura espressione, forza dinamica della realtà. Il corpo di Jake è il tramite di un dialogo tra l’eternità e l’immanenza che è reso possibile proprio dalla relazione che il filmmaker inglese cerca con il suo essere a parte. La narrazione di una biografia ormai astratta (puri innesti a colori di vecchie foto dei suoi viaggi) scandisce come capitoli senza titolo né numerazione uno sviluppo che cerca soprattutto di esprimere la limpida trascendenza di questa esistenza, la sua connessione con un tempo cosmico che è del resto il magnifico punto di arrivo del film: controcampo stellare alla lunga, lenta ripresa ascendente in verticale sulla vasca da bagno all’aperto in cui Jake sta riposando, nudo nell’acqua in mezzo alla neve. Pochi minuti prima, in una notte illuminata da un falò, Jake ha cantato assieme a un coro un vecchio canto popolare scozzese, “The Flyting o’ Life and Daith”, scritto da Hamish Henderson nel 1965, in cui l’eterna disputa tra Vita e Morte si offre come un dialogo sulla complessa bellezza del mondo.