Per un horror liberato: Black Phone, di Scott Derrickson

Sembra un po’ di rivedere in filigrana la carriera dello stesso Scott Derrickson in questo Black Phone: la filiazione è da un racconto di Joe Hill, figlio del più noto Stephen King, il che rimanda agli esordi di Hellraiser 5, film che proseguiva la saga creata da un altro nome forte come Clive Barker. C’è poi un certo gusto per una formula horror vintage, resa evidente già dall’ambientazione anni Settanta (con gli adolescenti esaltati per aver visto Non aprite quella porta), che sembra un prolungamento dei Super 8 di Sinister. Infine un amore per le maschere (ancora Sinister) e per il Male che infetta silenzioso il mondo, attraverso questa storia di rapimenti in una cittadina americana che sembra quasi una nota a margine nei discorsi dei ragazzi, salvo poi diventare centrale una volta che il protagonista diventa suo malgrado la vittima del mostro. Praticamente una nuova tappa del percorso di corruzione del corpo fisico e sociale iniziato con The Exorcism of Emily Rose e poi proseguito con Liberaci dal Male. Il doppio registro fra realtà e finzione, thriller e horror, che permette ai personaggi di interagire in modo tutto sommato naturale con la componente soprannaturale, diventa poi una traslazione di quella versatilità che ha sempre visto Derrickson alternare piccoli horror con progetti più magniloquenti e mainstream (Ultimatum alla Terra e Doctor Strange). Di più, Black Phone arriva proprio dopo la “separazione consensuale” (o è stata una rinuncia?) dai Marvel Studios, per cui il regista avrebbe dovuto dirigere il sequel del già citato Doctor Strage, poi passato a Sam Raimi.

 

 

Insomma, tanti spunti che solletica poter rileggere e ritrovare nel tessuto di questa strana vicenda scolastico-adolescenziale che si trasforma in thriller da camera, fino a una risoluzione fantastico-medianica: Finney Shaw è stato rapito dal mostro della cittadina, ma riesce a comunicare con le precedenti vittime grazie a un telefono rotto installato nella prigione, mentre la sorella ha delle visioni che forse potrebbero condurre alla tana dell’assassino. La scioltezza con cui Derrickson governa questo improbabile racconto rivela perciò il divertimento di un autore “liberato” e evidentemente a suo agio con narrazioni non lineari e commistione di generi. Tutte componenti peraltro già accennate nei precedenti lavori e che qui raggiungono una nuova pienezza. Ma, soprattutto, segnano una nuova e importante tappa per un horror mainstream che sta finalmente liberandosi da una gestione formulaica e appiattita sulle solite maschere, retaggio dell’estenuante stagione dei remake, per osare soluzioni bizzarre. Si pensi a Malignant, a Old, a Noi, anche a un 10 Cloverfield Lane e ora a questo Black Phone, in cui la messinscena orrorifica si sposa a un gusto per l’anomalo che non sia figlio a tutti i costi del semplice plot twist – qui pure presente nel finale, ma tutto sommato residuale e non particolarmente pregnante rispetto alla funzionalità della vicenda.

 

 

Se quindi non mancano le figure retoriche tipiche del genere (la soglia che divide dalla tana del mostro, le apparizioni improvvise nel buio), il film riesce a toccare alcune corde più profonde, lasciando assaporare il disagio dell’improvviso sovvertimento della normalità, che diventa cartina di tornasole per leggere il mondo: la prigione di Finney diventa quindi uno spazio “liquido”, che snocciola nuovi ambienti senza soluzione di continuità. Lo stesso vale per la casa “di sopra” in cui si muove il mostro, un Ethan Hawke quasi sempre coperto dalla luciferina maschera che, smontata e rimontata alla bisogna, ne ridisegna continuamente il volto e le espressioni, rendendolo ora grottescamente allegro, ora triste, ora arrabbiato. La dimensione soggettiva ingloba così la materialità degli elementi oggettivi per riscrivere continuamente la progressione del racconto. Lo spettatore resta sanamente confuso e interessato a proseguire la visione fino alla fine, mentre la mente “vede” in trasparenza umori difformi in un ritratto sociale inquieto e inquietante. Soprattutto però Black Phone è un film che riesce a rispettare i suoi giovani protagonisti, capaci di fare rete tra i “perdenti” (come in un racconto di King padre proprio) e che dimostrano un’intelligenza spesso trascurata dagli horror più formulaici, quasi in grado di far pensare alle opere di un Wes Craven. Un cinema di cui abbiamo bisogno.