Ridiventare padre: La petite di Guillaume Nicloux

Joseph viene a sapere che suo figlio e il suo compagno sono appena morti in un incidente aereo. I due aspettavano un bambino grazie alla disponibilità di una madre surrogata belga che ora non ha più alcun obbligo di legge e pensa di darlo in adozione. Rita ha un carattere deciso e forte, è arrabbiata e delusa dalla vita, dai progetti falliti dagli incontri sbagliati. Ha una figlia di 9 anni e una madre svagata, il desiderio di studiare e i soldi che sono sempre pochi. Joseph intercetta queste mancanze e si insinua nella vita della donna con una dolcezza che il figlio non conosceva, per non lasciare andare un altro componente della famiglia (la moglie è morta di cancro cinque anni prima). Questione di sangue, certo, ma anche di una vita che si spalanca davanti agli occhi di quest’uomo solitario e che mette in disordine le abitudini geometriche delle sue giornate passate a restaurare mobili antichi. E soprattutto questione di vuoti da riempire, prima che il vuoto stesso prenda il sopravvento. La tragedia, dunque, risveglia dall’abitudine il protagonista, un Fabrice Luchini con barba incolta e un dolore al collo che ogni tanto gli ricorda la sua età. Parla di bellezza (“che deve circondare le prime fasi di crescita dei bambini”) e acquista una culla preziosa, che potrebbe essere stata di Klimt.

 

 
Guillaume Nicloux interpreta il romanzo Le Berceau di Fanny Chesnel e lo modella sul carattere di un Fabrice Luchini capace di cambiare sotto i nostri occhi, con i suoi gesti, le ripetizioni, le espressioni del volto. Un personaggio profondamente umano che evolve pur restando fedele a sé stesso nel tentativo riuscito di superare il doppio lutto famigliare. “Non sono una persona litigiosa” dice alla psicologa che lo accoglie in aeroporto subito dopo la notizia della tragedia per sottolineare che non è interessato a una causa contro la compagnia aerea. La sua reazione è quella dell’azione e della ricostruzione, piuttosto che dell’attesa e il suo andirivieni tra Bordeaux e Gant, in auto prima e in treno poi, aggiungono un ritmo inatteso ad un film fatto di piccoli momenti, parentesi e dialoghi grazie ai quali far procedere il racconto nella sua linearità, sfiorare il melodramma attraverso la semplicità di emozioni come l’empatia e la speranza. La questione stessa della maternità surrogata, tema spinoso per le innumerevoli implicazioni etiche, oltre che giuridiche (affrontata in modi diversi in paesi diversi come il Belgio, dove è eticamente accettata a patto che non ci sia scambio di denaro, e la Francia, dove, all’opposto, è severamente punita) viene affrontata a piccoli passi e attraverso sfumature e dettagli. Come a voler filmare le reazioni e i pensieri nel momento stesso della loro formulazione, con la flagranza di un’immediatezza che è alla base dell’intero film. Il problema non è tanto approfondire la questione, quanto darne conto attraverso le diverse esperienze umane, offrire un caleidoscopico punto di vista, pronto a convergere un una visione pacificata e serena.