Ma qui, in questo momento, l’umanità siamo noi, ci piaccia o non ci piaccia.
Approfittiamone prima che sia troppo tardi.
Rappresentiamo degnamente una volta tanto quella sporca razza in cui ci ha cacciati la sfortuna.
Che ne dici?
Aspettando Godot, Samuel Beckett
A guardare la filmografia di Riccardo Milani, limitandoci alla produzione per il cinema, sono pochi, pochissimi i titoli che hanno dato luogo a film sbagliati o da dimenticare. La sua è, tuttora, una delle filmografie più spendibili nel non sempre qualitativamente alto panorama italiano, sia per una indubbia qualità che i suoi film sanno esprimere che supera di qualche spanna la media del cinema di casa nostra, sia per la focalizzazione di alcuni temi tutt’altro che secondari nel dibattito quotidiano e nella vita reale. Una filmografia che ha saputo offrire, pur nella sua implicitamente dichiarata appartenenza a un cinema di consumo e quindi declinato secondo i registri della commedia, spunti di riflessione che vanno dal tema della dislocazione territoriale del lavoro (Il posto dell’anima), alla questione femminile (Scusate se esisto) e all’incapacità della politica (soprattutto quella di sinistra a ciò naturalmente deputata) di comunicare e di comprendere le vere esigenze delle classi meno abbienti con quel tanto di innato darvinismo sociale da sconfinare in quel tanto condannato razzismo (Come un gatto in tangenziale). Non sono film esenti da difetti, né si grida al capolavoro, ma oggettivamente appartengono a una tradizione italiana della commedia di costume, così amata quando si tratta di elogiare i film degli anni ’50 e ’60, non sempre capolavori, ma centrati e focalizzati e nei quali era istintivo riconoscersi. Oggi, invece, sono difficilmente recepiti da una grande fetta di potenziale pubblico che continua a ritenere questo cinema geneticamente inferiore a quello del passato, quando invece, assolvendo alla stessa funzione, conserva le medesime qualità, funzionando egregiamente in quel rispecchiamento tra espressioni di una socialità che ci appartiene e mondo personale che si adatta alle regole. Il cinema di Milani, inserendosi in questo dibattito, è stato in grado di aprire interrogativi e costituire specchio credibile di un Paese come il nostro carico di ipocrisie e di supponenze. Una filmografia che, in altre parole, è decisamente molto di più che un instant movie, per diventare a pieno titolo, anche qualitativo, cinema di costume dei nostri tempi.
Con Grazie ragazzi Riccardo Milani – con la necessaria complicità di Antonio Albanese in una serrata consequenzialità di collaborazioni che accentuano, così come avveniva nel cinema italiano di quel passato, le potenzialità di un progressivo riconoscimento in quel transfert dell’identificazione che il cinema sa produrre nella stessa misura di un lavoro psicologico – alza l’asticella delle attese e lavora ancora in un altro luogo del disagio, incrociando la sofferenza dei detenuti con la liberazione dello spettacolo.
Antonio (Albanese), separato e con la figlia lontana per ragioni di lavoro, è un attore in difficoltà che, dopo i fasti degli anni ’80 e un brillante inizio di carriera interpretando Beckett, è finito a doppiare film porno per sopravvivere. Il suo ex sodale e amico Michele Brenno (Fabrizio Bentivoglio), opportunista e ipocrita, appartenente a quel mondo che si sostiene sulle amicizie e sulla supponenza artistica, ma anche su una ignoranza di fondo che sostituisce con una fastidiosa piacioneria, conosce però le qualità di Antonio e gli offre la possibilità di un corso teatrale nel carcere di Velletri. Poiché Antonio si rende conto che il vero problema dei detenuti è l’attesa, quella per i colloqui, quella per i processi, quella dell’ora d’aria e quella per uscire dalla galera, non vi è niente di meglio che mettere in scena Aspettando Godot, pièce teatrale che coniuga l’assurdità di una condizione umana con l’attesa (eterna) di un suo possibile miglioramento.
Forse bisogna proprio partire da Beckett e dal suo capolavoro teatrale per ragionare su quest’ultimo e ambizioso film di Milani. Senza snaturare le tradizioni che appartengono alla sua precedente produzione, il regista compie un salto di qualità, limitando in Grazie ragazzi il versante più generalmente divertente e privilegiando, invece, il percorso drammaturgicamente più complesso del dramma intimo.
I suoi protagonisti hanno alle spalle, come sa chi ha avuto contatti con i detenuti, vite difficili, ma anche molto tempo – il tempo per loro non è un problema, anzi, in una prospettiva rovesciata, ve ne è anche troppo – per ragionare sui propri errori. Ed è questa l’ottica che Milani sceglie incaricando il suo Antonio di rendere manifesto questo traghettamento. Il salto ulteriore è quello che questa sgarrupata compagnia teatrale formata da cinque detenuti smetta di interpretare una inconcludente commedia umana per offrire la consapevolezza a tutti, a loro stessi, al loro pubblico, agli spettatori del film dell’assurda condizione umana e per superarla non resta che l’umorismo freddo di Beckett in quella lettura tragica dell’ineluttabile e inutile attesa. L’intuizione del film sta proprio nell’avere scelto un’opera nella quale la condizione di costrizione equivale a quella di una perpetua condanna alla prigione. Tutto ciò ha del tragico e il tragico si confonde, nella rappresentazione, in quell’eterna attesa beckettiana durante la quale si consumano gli inestinguibili desideri, il sesso, l’amore impossibile verso il figlio, la dimostrazione del proprio valore. È scalare l’Everest consumando, nei comuni desideri della razza umana, quella razza in cui ci ha cacciati la fortuna, l’inconcludente attesa di Godot, già magnificamente tradotto in musica con le parole di Claudio Lolli.
Milani, inoltre, coglie l’occasione per una riflessione sul tema dello spettacolo e del teatro in particolare, attraverso le contrapposizioni antagoniste di Antonio e Michele, ormai, da anni su fronti opposti rappresentando due visioni, due anime di uno spettacolo che finisce per essere adeguato ai soli gusti del pubblico.
Forse uno dei pregi maggiori del film è quello di avere avuto il coraggio di non deragliare in un lieto fine ragionevole e consolatorio, in un la vita è meravigliosa. Milani, che scrive la sceneggiatura in collaborazione con Michele Astori, possiede la sicurezza e la mano ferma per rompere le attese e spiazzare i suoi spettatori, con la rinuncia alla consolazione, ma con la responsabilità ora attribuita ai suoi commoventi detenuti. Una scelta coraggiosa già preannunciata nel mancato recupero di Cristian, suo attore albanese forzatamente sostituito dal boss Diego che tutto può in quel carcere che diventa palcoscenico anche di quelle sventure.
Un discorso a parte meriterebbe la preziosa collaborazione di Antonio Albanese, che sa imporre la sua personalità attoriale modulando la sua presenza dal geniale Laqualunque della sottopolitica, al disperato Intrepido di Amelio e fino a questa ulteriore collaborazione con Milani, nella quale riesce a rappresentare il fallimento, l’estraneità solitaria rispetto al mondo nel suo eremo che confina con la strada ferrata. Ritrovare l’umanità smarrita è il suo scopo per dimostrare che se anche Godot non arriva, qualcosa di noi sarà rimasto.
Foto di Claudio Iannone