Nel distretto a luci rosse, forse più grande del mondo, la vita ha un aspetto quasi surreale. O meglio, il quotidiano che noi conosciamo non esiste, completamente assorbito da gesti a metà tra il gangster movie e fumetto. E infatti ad un famoso e nutrito manga del 2005 si ispira l’ex enfant prodige del cinema giapponese contemporaneo Sono Sion con il suo film Shinjuku Suwan, il primo dei tre film presentati a questo 33esimo Torino Film Festival per i quali è difficile trovare un comun denominatore, a parte un apparato produttivo articolato e ben lontano dall’indipendenza degli esordi. Il risultato è debordante sotto tutti i punti di vista, a partire da una storia che inizia come flashback ideale di un giovane di provincia, Tatsuhiko, sbarcato a Shinjuku per cercare fortuna. E la trova in modo rocambolesco, grazie alla sua tenacia nel fare a pugni e, probabilmente, al look improbabile dei suoi capelli ricci ossigenati. Entrato nelle simpatie del capitano di un’organizzazione di “scout”, diventa a sua volta procacciatore di ragazze per sale massaggi e bordelli della zona, traendo vantaggio economico, ma anche potere. Binomio che fa gola a tanti e fa scattare la guerra tra bande, con tutti i pestaggi connessi, ciclici e ripetitivi. Che poi è il vero punto debole di un film disperso in mille rivoli narrativi, abbozzati e spesso pretestuosi, che ampliano a dismisura una parabola inutilmente ricca di personaggi, descritti come figurine di un meccanismo quasi senza respiro.
Un po’ diverso è il caso di Real Oni Gokko Tag, quasi un horror che cambia in itinere molte volte temperamento e genere, passando in fretta dal teen film, all’horror, al thriller enigmatico, per finire come sorta di fantasy post apocalittico provocatorio ed evocativo di un immaginario ricco e stratificato, che mette insieme letteratura di genere, cinema, riflessioni sulle identità moltiplicate o rubate da videogiochi o dai moderni social network. Il risultato è una corsa a perdifiato dentro situazioni oltre ogni limite. Second life aggiornato alle ossessioni di un regista che ha fatto del tema della maschera e del doppio il suo più importante segno distintivo. Oltre al vento, vero e proprio corpo horror, che arriva in soggettiva e spazza via tutto, taglia a metà corpi e autobus ed espande il suo sguardo minaccioso su tutto lo spazio, visibile e invisibile. Affascinante e insieme didascalico, questo film fa talvolta rimpiangere le opere più caustiche e criptiche del regista giapponese. Si procede anche in questo caso per stereotipi, ma si tratta di un tributo alle ossessioni del guardare che da Videodrome in poi hanno invaso la scena di riflessioni e fotogeniche fobie. Quanto può uccidere l’occhio che guarda?
Infine un film “natalizio”, in quanto racconto edificante con tanto di pupazzi parlanti, animali abbandonati, sogni infranti, promesse da mantenere a tutti i costi, una renna e un Babbo Natale ubriacone e nostalgico. In Love & Peace lo schema non è diverso dal più classico film delle feste, con un personaggio descritto nella sua metamorfosi da impiegato tormentato da tutti i colleghi a rockstar di grande successo. Nel percorso, però, non pochi saranno i compromessi e i cadaveri lasciati a tutti i livelli. Un film che si inserisce perfettamente nella tradizione giapponese dello yokai, per il quale sembra scomparire il tocco anarchico e provocatorio di Sono, pur nella leggerezza divertita di soluzioni visive originali. Perché quello che manca è proprio una semplice forma di ribellione allo schema dell’industria, il tocco irriverente, imperfetto e anche graffiante con il quale, altrove, ha saputo descrivere l’inquietudine e il disagio del singolo e di una società.