Fissati i criteri,
La flor si diverte poi a scompaginarli, esibendo una delle caratteristiche precipue dell’opera di Llinás: l’ironia e l’idea di cinema come enorme gioco delle forme e della narrazione. La ricognizione sui generi si accompagna infatti a una continua sperimentazione sugli stessi, attraverso spericolati
detour che azzerano qualsiasi ipotesi di intreccio, per lasciar trionfare il racconto dei personaggi. Questo è evidente solo al termine della visione, quando l’intera opera, ormai dipanatasi, arriva a un livello di rarefazione inseguito fin dal principio e progressivamente applicato al corpo del film. Il primo “petalo” (con una protagonista “posseduta” da una mummia) è infatti quello più lineare e codificato, ma già dal secondo le direttrici narrative si frantumano e la storia d’amore fra
due cantanti melodici, intrecciata alle imprese di gangster, scienziati folli e sieri dell’eterna giovinezza, chiarisce la natura assolutamente libera dell’operazione. Con l’approdo alla spy-story si evidenzia poi il valore della digressione come elemento portante del cinema secondo Llinás: quattro donne sicario sono dirette al punto di esfiltrazione dopo un’operazione, che però si rivelerà una trappola. Non sapremo mai come andrà a finire, ma in compenso i flashback sul passato delle protagoniste costituiranno altri film-nel-film, in una struttura a scatole cinesi che ricorda quanto compiuto da Michael Ende con
La storia infinita. In questo senso solletica l’idea che
La flor sia nient’altro che un fantasy mascherato, un contenitore di spunti che aprono a altre possibili vie, che si segue per il piacere della narrazione, in tutte le sue forme: quella dei generi, del muto, quella del racconto in prima o in terza persona. Una celebrazione del cinema-cinema che va oltre le sperimentazioni post-moderne sul citazionismo alla Tarantino e che, nel glorificare quanto codificato dalla tradizione, lo rivitalizza, concedendogli l’agognato passo in avanti: un cinema, insomma, che supera se stesso come massima forma d’amore nei propri confronti. D’altronde, che
La flor sia essenzialmente una dichiarazione d’amore, ce lo ricorda la straordinaria complicità che Llinás stabilisce con le sue quattro interpreti, che tornano in vari ruoli nelle singole parti: Elisa Carricajo, Valeria Correa, Pilar Gamboa e Laura Paredes sono corpi-contenitore che il film cerca di riscattare dalla semplice funzionalità, per farne muse ispiratrici di storie e emozioni, cui lo spettatore possa sempre più votarsi. In questo modo si rinnova l’autentico miracolo dell’opera, che rovescia continuamente i propri schemi: non sono le storie a fare i personaggi, ma le attrici a rendere potenti queste ombre di filoni già noti, dove al conforto del noto si preferisce la possibilità di sublimare la forza della vita – l’ultima parte con le attrici spogliate di ogni orpello, con alcune in attesa di un figlio, diventa così una palese dichiarazione d’intenti. La fantasia de
La flor è immaginare perciò un mondo delimitato da quattro attrici-donne che, nelle loro molteplici trasformazioni, aprono i confini stessi e restano il segno più evidente
delle capacità affabulatorie e artistiche di cui sono capaci gli esseri umani. In questo senso il film riesce a sembrare
larger than life nonostante l’evidente economia dei mezzi a disposizione, e ogni genere è perfettamente risolto, pur nella generale struttura “porosa”. Nell’equilibrio fra i suoi estremi,
La flor riesce così a trovare il perfetto equilibrio, lo stesso che lo ha portato al Torino Film Festival nella sezione Onde, dove nel 2008 passò l’altro film di Llinás,
Historias extraordinarias, in cui già il cineasta argentino rifletteva abilmente sulle forme della narrazione mediante l’intreccio di più piani narrativi. Segno che dietro il piacere del giocoliere c’è un autore di invidiabile coerenza.