La tensione spezzata di Non riattaccare di Manfredi Lucibello

Tra i pochi film italiani in concorsoalla 41a edizione del Torino Film Festival c’era Non riattaccare, scritto (insieme a Jacopo Del Giudice) e diretto da Manfredi Lucibello, al suo secondo lungometraggio di finzione dopoTutte le mienotti (2018). «L’incipit del romanzo Non riattaccare di Alessandra Montrucchio da cui il film è liberamente tratto – ha dichiarato Lucibello – mi ha folgorato. In quelle pagine ho visto l’occasione per portare avanti il mio personale discorso sul noir, realizzando un film essenziale (inteso come qualcosa di cui non posso fare a meno) a partire dai suoi elementi: una persona, una voce, un’automobile». Chissà se Montrucchio, raccontando di una donna che corre in macchina a tentare di scongiurare il suicidio del suo ex compagno e sta al telefono con lui tutto il tempo aveva in mente il film Locke (2013) di Steven Knight con protagonista Tom Hardy, che raccontava una storia con molte analogie e la stessa idea di massima: una corsa in auto al telefono. Di certo Lucibello lo aveva in mente ed è riuscito a riprodurne visivamente la tensione con una fotografia notturna pastosa e un montaggio incessante. Ma, come succede a molti film di genere italiani, quello che manca a Non riattaccare è la scrittura. Non solo i dialoghi tra Irene e Pietro a tratti sono imbarazzanti, con vacuità, zeppe e cadute di senso repentine, ma la stessa trama si sfilaccia sotto i colpi di inverosimiglianze macro e micro.  

 

 

«Il film – continua Lucibello – racconta la loro storia, durante un viaggio con il piede schiacciato sull’acceleratore. Noi spettatori viviamo ogni istante: non ci sono ellissi o salti temporali. Non ci sono soste. Siamo sempre con Irene, che è presente dalla prima all’ultima inquadratura». Peccato però che le soste ci sono e non sono solo quelle di Irene in autostrada per fare benzina e cercare un cavo per ricaricare il cellulare quasi scarico, ma sono anche e soprattutto quelle che spezzano il racconto e ne sgonfiano la tensione da noir alla quale ambisce, fino a quella finale prodotta paradossalmente dall’accumulo mal dosato dei colpi di scena. Forse, fatta salva la sua capacità fotografica promettente, l’essenzialità cercata da Lucibello dovrebbe passare per qualche esercizio supplementare di sceneggiatura, perché al cinema così tanto parlato serve una scrittura controllata, senza inerzie, approssimazioni e scorciatoie, come quella che rende convincente Locke. Nessuna essenzialità senza precisione.