Lo diresti un perdente e infatti lo è. Di certo non è un campione, come vorrebbero fargli credere. E a lui nemmeno interessa esserlo. La parabola del pugile finlandese degli anni ’60 cui è dedicata l’opera prima di Juho Kuosmanen The Happiest Day in the Life of Olli Mäki (Premio Un Certain Regard a Cannes 69), è di quelle che hanno a che fare prima con la sua umanità che con la sua caratura atletica. Come fosse una sorta di uomo di marmo deideologizzato, Olli Mäki era un pugile non professionista che, dopo aver vinto nel 1960 il titolo europeo dei pesi leggeri del campionato dilettanti, nel 1962 fu preso dalla natia Kokkola e portato a Helsinki per sfidare l’americano Davey Moore per il titolo mondiale dei pesi piuma: più che un incontro, un grande evento di orgoglio nazionale, al quale fece seguito il grande smacco di una sconfitta in soli due round. Questo personaggio dal destino così fragile deve essere sembrato al finlandese Juho Kuosmanen una figura interessante proprio per la sua piccola umanità e ne ha fatto il protagonista di un film intriso di dolcezza, irrisorio nei confronti della vana retorica sportiva che fa da contorno al sudore e alle prospettive di un’umanità dal basso che guarda la vita con misura. Sin dal bianco e nero contrastato, il film sembra costruito sull’estetica in contrappunto sui tempi di certo cinema sovietico degli anni ’60, ha la dolcezza della nostalgia del presente che apparteneva per esempio ai film di Kira Muratova, elabora il rapporto col suo personaggio con la tenerezza di un dialogo fatto di implicita empatia.
L’uomo infatti appare subito fuori sincrono rispetto alle attese di cui è caricato, gli ingranaggi della retorica comunicativa lo trovano stonato tanto quanto il rigore atletico richiesto alla preparazione ad una sfida mondiale: l’unica ombra contro cui Olli è interessato a combattere è il fantasma d’amore ben concreto rappresentato da Raija, la ragazza che ama e da cui è amato. E’ da questo fantasma, ancora vivido nei ricordi della menta oggi offuscata dall’Alzheimer dell’ex pugile ormai ottantenne, che Kuosmanen è partito per costruire il film. Ed è su quel fantasma che il film fa perno per mutare la prospettiva delle cose, preferendo raccontare la storia di un amore piuttosto che la storia di un incontro di boxe. Olli resta un uomo che sfugge al disegno fatto su di lui dal di fuori: la sua stessa lotta con il proprio peso, costituzionalmente superiore a quello della categoria per la quale lo hanno spinto a battersi, è la matrice di una disfunzionalità della persona al progetto di cui si deve fare carico. Del resto Kuosmanen è regista che già nel suo mediometraggio precedente, il notevole The Painting Sellers (Taulukauppiaat, Premio alla Cinefondation di Cannes 2010), lavorava sulla distonia tra i personaggi e la loro collocazione nella realtà, spiazzando le relazioni tra ambiente, figure, sentimenti e ruoli reciproci. Olli Mäki incarna la tenerezza poco muscolare di un campione che si offre alla sconfitta con la dignità di un vincente, Kuosmanen lo fa diventare un gigante rispetto a tutti proprio nel momento in cui cade e si rialza affrontando le sconfitta a testa alta, forte dell’amore della sua Raija. C’è del metodo nella sua fragilità e Kuosmanen lo assume sino in fondo, strutturando il suo film come un canto d’amore. Una carezza in un pugno…