Esordio dietro la macchina da pesa per Scott Z. Burns, già sceneggiatore di molti film di Steven Soderbergh (che qui è produttore), The Report (uscito pochi giorni a novembre e ora su Amazon Prime video) è resoconto dettagliato e lucidissimo di un’indagine che avrebbe potuto naufragare in ogni momento dei sette anni che ha impiegato ad uscire dalle stanze buie ed essere pubblicato, per quanto parzialmente. Troppe le implicazioni politiche, troppo pesanti i fardelli da sopportare per la piccola commissione d’inchiesta, che via via si assottiglia nel conflitto tra Democratici e Repubblicani e nell’impossibilità di sopportare gli ostacoli alla verità, di quello che fu per gli Stati Uniti un periodo nero nella storia dei diritti umani. Daniel J. Jones (Adam Driver), membro del comitato d’investigazione e dello staff della senatrice democratica Dianne Feinstein (Annette Bening), ha l’incarico di condurre un’indagine sul “Programma di interrogatorio avanzato” voluto dalla CIA dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, relativo agli uomini catturati e rinchiusi in prigioni segrete dette “black site”. Il risultato è un testa a testa più che mai diplomatico, tra CIA, FBI e Senato, che alla fine produsse un documento di ben settemila pagine per ricostruire con chiarezza le ragioni (poche e irragionevoli) di metodi tanto efferati. Torture di cui si nega l’esistenza, fino alla cancellazione stessa della parola, perché la verità è oggetto fragile che terrorizza.
Si pensa a Il caso Spotlight per la puntualità della narrazione e la sobrietà della forma. Nulla eccede da ciò che è necessario, nessuna sbavatura nel corso della lunga avventura che ha per protagonista il classico uomo comune, animato da valori solidi di lealtà e giustizia. Come lui, non si esce quasi mai dalla stanza sotterranea, dove si svolgono le indagini, fatta eccezione per le lunghe riunioni, gli incontri furtivi tra i personaggi o le ricostruzioni di quanto affiora dalle ricerche. Immagini di torture, che hanno fatto il giro del mondo, suscitando disapprovazione e sconcerto e collocando il film nel filone cinematografico d’inchiesta e di denuncia che fu prolifico negli anni Settanta della Nuova Hollywood irriverente e ribelle. Qui, però, la ribellione è rigore e l’irriverenza tenacia, tutti inscritte silenziosamente nelle espressioni di un impassibile Adam Driver, di cui il film è specchio. Una staffetta di confronti, opposizioni, contrasti, un gioco di forza continuo tra poteri opposti o contigui, ideali sacrificati e bugie perpetrate in nome di un pericoloso patriottismo. Un film avvincente anche se ripetitivo, freddo ma appassionato, che non si concede digressioni e si concentra sui fatti. Non una corsa contro il tempo, anche se poi il tempo si mostra beffardo. Scott Z. Burns riesce nell’impresa di non sfiorare mai generi o tendenze, limitandosi a raccontare uno schema caparbio di verità in pericolo, e ricostruendo il momento preciso in cui il mondo che avevamo conosciuto ha smesso di esistere, in favore di un sistema sempre più sofisticato di manipolazione delle informazioni e della stessa realtà. Come dire che i due psicologi, ideatori delle torture di Guantanamo e Abu Ghraib hanno perso e vinto al tempo stesso. Il loro metodo è stato giudicato illegale un istante dopo essersi diffuso come un virus, sotto forma di disimpegno, disinteresse e superficialità, quelli che il cinema civile degli anni Settanta combatteva ancora con efficacia.