Con la forma del thriller, Martin McDonagh ha sempre flirtato, anche se poi il suo registro preferito resta quello della commedia: lo dimostra il suo nuovo lavoro, in concorso alla Mostra veneziana. Un racconto che cerca di restituire l’essenza della pura americanità, attraverso il confronto aspro, eppure divertito, tra personaggi che sottolineano in ogni dialogo la propria iconicità. D’altra parte, l’altra caratteristica dell’autore anglo-irlandese è il lavoro sui caratteri contrapposti, la chimica che si viene a creare e l’eventuale focolaio di follia che ne scaturisce (il precedente 7 psicopatici, in questo senso, era programmatico sin dal titolo). Nel caso specifico, la miccia viene accesa da Mildred Hayes, interpretata da una volitiva Frances McDormand: qualcuno le ha violentato e ucciso la figlia adolescente, ma la polizia locale non ha mosso un dito per far progredire le indagini e così lei prova a scuotere le coscienze affittando lo spazio di tre cartelloni pubblicitari per un deciso j’accuse. Il gesto in effetti provoca scalpore, innescando una dinamica di ritorsioni e recriminazioni da parte di chi vede infangato il buon nome dell’autorità, anche se lo sceriffo Willoughby (il solito grandissimo Woody Harrelson) riconosce il colpo sul nervo scoperto e cerca di fare qualcosa, pure se la sua maggiore preoccupazione è un cancro che se lo sta portando via. Scheggia impazzita della situazione, naturalmente, il sempre gigionesco Sam Rockwell nel ruolo del poliziotto rozzo e sopra le righe Dixon, forse il personaggio destinato alla maggiore evoluzione nel corpo e nell’animo.
La scelta di attori che nel corso della loro carriera hanno già trattato i temi dell’autorità, del carattere “forte” e in grado di rompere gli schemi, oltre che delle nevrosi incistate nel cuore pulsante dell’America, rivela gli intenti di un’operazione che rivendica la propria esemplarità. McDonaugh innalza un racconto preciso su come la rabbia latente nell’America profonda sia l’autentico collante sociale in grado di accomunare ogni personaggio: sia Mildred che la comunità che le si oppone, hanno infatti alle spalle un bagaglio di incomprensioni e traumi che spinge a una sorta di guerra intestina nella terra di Trump. Uno scenario che può rievocare – con i debiti distinguo – quanto faceva Rambo negli States reaganiani. La protagonista diventa così un promemoria vivente delle mancanze altrui, ma con un ulteriore livello di profondità dato dal proprio vissuto e da un rapporto con la figlia ormai perduta non del tutto esente da riprovazioni. Mc Donaugh gioca così la carta dell’esperimento sociale con le dovute parentesi per empatizzare con le ragioni delle varie parti in causa e con l’estremismo delle loro azioni, e questo andamento duale si rispecchia in un registro narrativo che intreccia ironia e dramma. Qui emerge il limite di un’operazione che vorrebbe essere sempre lirica, ma troppo spesso inciampa nell’ansia da prestazione: l’ironia tende a debordare come a non voler lasciare mai lo spettatore in balia della commozione eccessiva, prestando subito soccorso con l’ancora della risata. Ma in questo modo si avverte la forzatura e la furbizia, smorzando molte buone intenzioni. Resta in ogni caso l’ottima prova dei vari attori e una costruzione interessante nel giocare con la levità del primo piano e i segreti nascosti nel profondo, riportati alla luce con gesti eclatanti. La posta in gioco, in effetti, è stimolare il confronto più che suggerire analisi e soluzioni, come dimostra la porosità di un racconto che intercetta porzioni di vita e sostanzialmente non ha né un inizio (non vediamo l’omicidio da cui si è dipartito il tutto) né un vero e proprio finale.