Prima di tutto, facciamo un po’ di ordine. Il colore viola nasce come romanzo. Il testo, pubblicato nel 1982 e scritto da Alice Walker, diventa subito un classico della letteratura statunitense tanto da vincere anche il Premio Pulitzer (segnando un precedente storico dal momento che l’autrice fu la prima afrodiscendente ad aggiudicarsi un simile riconoscimento per la narrativa). Nel 1985, Steven Spielberg adatta le pagine per il suo film omonimo e, vent’anni dopo, dal 2005 in poi, il romanzo verrà anche portato in scena a teatro, a Broadway, grazie a un musical di ampio successo. Ecco. Proprio da qui, da quest’ultima variazione sul tema, dalle note musicali andate in scena nella piazza più famosa del mondo, prende spunto l’ennesimo adattamento del romanzo di Walker. Diretto da Blitz Bazawule (tra le menti creative di Black Is King, l’album visivo di Beyoncé), Il colore viola vuole essere la rivisitazione cinematografica di un musical di grande fama, non la trasposizione di un testo letterario né tanto meno il remake di un film diretto da Steven Spielberg. Fatte queste dovute precisazioni, possiamo addentrarci nel vivo del discorso. Infatti sarebbe errato, prima ancora che troppo semplice e superficiale, limitarsi a un confronto tra il lavoro di Bazawule e di chi lo ha preceduto. Piuttosto bisogna spostare lo sguardo per dialogare con le intenzioni che un film come questo dichiara di voler perseguire (a cominciare proprio dalla primissima inquadratura) e la meta che riesce a raggiungere al termine delle oltre due ore di durata.
Il colore viola vuole essere un film spettacolare, nel senso letterale del termine. Vuole lavorare, riflettere e portare in scena lo spettacolo. Tutti gli sforzi della regia sono finalizzati a meravigliare il pubblico con sequenze musicali coreografate nel più classico dei modi, costumi e colori sgargianti, sinuosi movimenti di macchina, una luce ai limiti dell’accecante. Bazawule ricostruisce un palcoscenico sul quale fa sfilare il suo cast, mantenendo sempre una distanza formale che via via si fa sempre più siderale. Con il procedere dei minuti, si ha la sensazione di trovarsi di fronte alla vasca di un acquario, alla vetrina di un’esposizione che reciti il comandamento “guardare ma non toccare”. Non c’è profondità, non si attraversa mai lo spazio scenico, si entra difficilmente in empatia con i personaggi. Raramente la quarta parete tanto cara al teatro si è avvertita così pesantemente, rivelandosi impossibile da scavalcare. Eppure qui siamo al cinema. Qui il pubblico non solo può, ma deve diventare una mosca invisibile libera di volare accanto alle emozioni e ai volti dei protagonisti. Qui lo spettacolo deve essere garantito non solo formalmente, ma soprattutto empaticamente. Di tutto questo, purtroppo, si dimentica Bazawule. La sua ricostruzione abbaglia ma non riesce a colmare la profondissima lacuna che il regista timidamente prova a nascondere dietro il suo stesso guscio. È tutto edulcorato, tutto preciso, tutto pulito. Anche quando piove, non c’è un capello che sia fuori posto, una umanissima e più che necessaria sbavatura. Così, si arriva al finale dove le due sorelle Nettie e Celie ci sembrano due estranee. Il che, narrativamente parlando, non sarebbe nemmeno scorretto come guizzo. Ma qui lo si raggiunge per altre ragioni. Peccato.