Trieste35 – Paesaggi senza più figure in Stepne, di Maryna Vroda

L’ucraina Maryna Vroda si era già fatta notare con Stepne al Festival di Locarno edizione 2023 ottenendo il Premio per la regia. A Trieste ha vinto il Concorso lungometraggi, un premio meritato per un film davvero potente, sia per il mondo visivo che sa creare con l’attenzione ad una tradizione insuperabile, sapendo cogliere a piene mani la lezione di quel cinema russofono del passato più o meno vicino e diventando questa scelta precondizione per l’esistenza del film. A conferma ulteriore dell’altissima qualità di quel cinema, che al di là di ogni conflitto, continua a riconoscersi dentro radici e sentire comuni. Anatoliy, non più giovanissimo, scende dall’autobus sul quale sta viaggiando e si incammina su una strada terrosa con larghe pozzanghere segno di una pioggia recente. Raggiunge una casa in un piccolissimo villaggio e si comprende presto che il suo compito sarà quello di assistere l’anziana madre che soffre di demenza senile. Anche Anya, una donna di un villaggio vicino è accanto a lei. Tra Anatoliy e Anya vige la regola del non detto che nasconde ogni sentimento. I giorni di Anatoly sono tutti uguali fino a quando la madre muore e si organizza il funerale al quale parteciperà anche Luša, l’altro figlio e fratello di Anatoliy. Lui è un ufficiale dell’esercito e non è mai stato troppo affezionato alla famiglia. L’intimità ricreatasi tra i due fratelli si romperà quando ciascuno prenderà una strada diversa per fare ritorno a casa propria. Stepne è un film evocativo di solitudini e malinconico attaccamento ad una terra che in fondo resta ingrata. Un tratto tipico che appartiene di diritto a quella letteratura che ha fatto la storia,  quella mondiale e che in tutta l’area, alla quale anche l’Ucraina appartiene, è sempre stato scenario imprescindibile nello sviluppo dei racconti.

 

 

È in questa prospettiva che va dunque letto il cromatismo di un film in cui si leggono i segni della fine di ogni speranza. Il colore livido della natura raggelata da un inverno infinito, non solo diventa componente essenziale del film che senza questa tetra essenza non avrebbe la potenza espressiva che invece possiede, insinuandosi il paesaggio tra le pieghe della storia come ulteriore personaggio, ma il loro imporsi come habitat mai salvifico, diventa il tema dominante nella ricerca delle ragioni dell’abbandono. Stepne, che significa “steppe”, titolo dunque quanto mai perfetto per identificare luoghi fisici e dell’anima,è anche il canto estremo di una non più arginabile deriva dei luoghi destinati a diventare paesaggi senza più figure umane in quella inanimata desolazione del titolo.  È per questi motivi che, in fondo, Stepne non è solo il racconto della devozione filiale, possedendo, anche, una fortissima carica antropologica che domina in filigrana l’intero racconto e che si interroga di continuo su quel presente senza futuro. Al centro del film c’è una lunga sequenza – forse perfino un po’ troppo lunga – nella quale, consumando il banchetto funebre dopo la morte della madre di Anatoliy, si danno convegno gli anziani del piccolo villaggio, cioè tutti perché in quelle case non c’è nessuna gioventù che avanza. I ricordi e i racconti del passato si susseguono e si incalzano l’uno con l’altro. Il piccolo villaggio come comprendiamo non è più fatto di sguardo al futuro, ma solo di passato, di storie trascorse, di sguardi perduti e di tradizioni che non si rinnoveranno. Il film, diventa dunque anche una riflessione sull’idea di luogo come deposito permanente della memoria, in quella segnata inaccessibilità legata all’esistenza degli esseri umani.

 

 
È in questa prospettiva che va letta anche la progressiva spoliazione della dimora familiare da parte dei due fratelli dopo la morte della madre. La dispersione delle cose che le sono appartenute assomiglia ad una distribuzione di una povera eredità, alla consegna di pezzi di memoria ad altrettanti destinatari senza futuro. Da qui la livida malinconia che percorre il film in una specie di ultimo spettacolo da consumare prima di una piccola apocalisse. È sottile il richiamo alla danza macabra di Bergman ne ll settimo sigillo quando, con lo sguardo dal basso verso l’alto, nella stessa prospettiva già utilizzata dal Maestro svedese, Vroda inquadra i due fratelli in silhouette che lavorano attorno alla tomba della madre. È in questi dettagli che si ritrova quel senso profondo di un cinema radicale che Maryna Vroda per questa sua seconda prova di regia ha saputo praticare. Da qui anche quella sicurezza che proviene dall’avere saputo raccogliere la lezione del grande cinema che, proveniente da quegli stessi luoghi, ha preceduto il suo. La costruzione dell’immagine, il carico emotivo che sa trasmettere, la ricca densità del racconto, che non è mai solo narrazione di eventi, quanto invece forma pregevole di lavoro sul presente e sul passato e sull’anima dei personaggi, che nel silenzio dei gesti dimostrano quanto siano profondamente legati a quelle radicate tradizioni, fanno di Stepne il reperto di un cinema quasi perduto che torna a rinascere, avvolto da quel manto di ricchezza espressiva e di caratterizzazione precisa dei personaggi, dentro una storia che preannuncia la definitiva chiusura di un tempo, con la capacità di guardare e ritrarre con profondità e anche a futura memoria, quel piccolo mondo al tramonto che diventa scenario di una più grande e diffusa condizione umana. Un cinema che sa ricordare le pagine di quella grande letteratura che ha raccontato con sapienza e grande intensità i piccoli e i grandi dolori, il bene e il male, il peccato e la redenzione.