In Italia Möller si è fatto conoscere con Guilty – Il colpevole, un esordio nel quale il tema della colpa costituiva il filo conduttore del racconto che si svolgeva tra le pareti spoglie di un commissariato di polizia. Anche questo film, in realtà, sembra trovare legami con il precedente a cominciare dalla sua ambientazione tra le mura di un carcere non troppo dissimile da quella di Gulty. Claustrofobico anche questo come il suo primo, e in fondo anche il tema fondante non troppo si discosta da quello del precedente. Il regista svedese sembra dunque volere continuare quella esplorazione dell’animo dei suoi personaggi virando sul piano di una coscienza materna che appare protettiva, ma in realtà è solo l’espressione di un profondo senso di colpa. Sons diventa così un film tortuoso a suo modo, complesso nel costruire i sentimenti di odio e di una colpa quasi inconfessabile, forse più forte dell’odio stesso, che muovono la protagonista. Eva è una guardia carceraria assegnata ad un reparto nel quale vengono destinati i delinquenti comuni. L’arrivo di un detenuto nella prigione fa cambiare atteggiamento a Eva. Per seguire quel ragazzo, che si chiama Mikkel, si fa trasferire al “Centro Zero” dove sono destinati i delinquenti più violenti, considerati irrecuperabili. Il suo legame segreto con Mikkel e i suoi sensi di colpa per quel passato, determineranno i suoi futuri comportamenti. Sono evidentemente per Möller luoghi ideali per la narrazione di fatti, ma soprattutto di invisibili angosce dell’esistenza, gli spazi perimetrati di un luogo istituzionalmente votato all’espiazione.
Lo era il commissariato di polizia in Guilty, lo è ancora di più il carcere in questo film, archetipo di ogni clausura dentro il quale maturare una nuova vita. Il carcere di Sons con i suoi anfratti, le sue pareti lisce e vuote, i suoi corridoi senza uscita, la sua freddezza e i rumori insistiti dei chiavistelli che aprono e chiudono le porte, le sue luci al neon è davvero un luogo esclusivo, distante dal restante mondo che solo di sfuggita ci viene mostrato, sembra essere il vero protagonista nel quale immergere la progressiva elaborazione di Eva. La vera natura del film in fondo è proprio quella di rappresentare, dentro una struttura di costrizione per detenuti e guardie carcerarie – Eva non ha una vita che non sia quella della prigione, è segregata come i suoi detenuti – un percorso di riabilitazione o meno della propria coscienza, dei sentimenti d’odio come quelli che Eva nutre verso Mikkel che verranno alla luce abbastanza presto. Un percorso che si caratterizza dentro quello sviluppo di una specie di sindrome di Stoccolma che poi scolora in un sentimento quasi materno, quello che manca ad Eva o che forse crede le manchi. D’altra parte il titolo del film attira la nostra attenzione sul rapporto con i figli in una assenza che lascia il posto alla violenza che diventa l’evento determinante della storia. Lo sviluppo semplice della storia sembra quindi celare il groviglio di emozioni che si succedono, il senso di un passato che non sa trovare pacificazione. Ma il film diventa una rilettura originale del ruolo materno che resta libero da ogni retorica e nell’asciuttezza del racconto, se si vuole ancora più stringato del precedente, privo di ogni captatio benevolentiae nei confronti dello spettatore.
Il confronto degli istinti materni che si sviluppano attraverso due personaggi è duro, anche violento. Eva rivendica un ruolo materno che non ha mai vissuto fino in fondo, distante da un figlio in difficoltà. La madre di Mikkel dal canto suo prova un evidente disagio al cospetto del figlio e la sequenza del pranzo durante il permesso concesso all’imprevedibile Mikkel ne costituisce una prova, oltre che diventare una sperimentazione di ogni soppresso sentimento materno, incapace di manifestarsi in una condizione di brutale violenza come quella che cova Mikkel. Come quella, pressoché identica che anima Eva. Gustav Möller ci fa muovere dentro un piccolo labirinto di disagi, quello fisico rappresentato dalle volute del carcere (il film è stato girato dentro un carcere abbandonato di Copenaghen), ma anche dentro questi tortuosi percorsi che i personaggi vivono e nessuno yoga, quello che pratica Eva, servirà a fare andare via il male che abita dentro questa storia. Un male radicato e inespresso che risente della lunga gestazione del tempo trascorso. Quello di Sons è un male antico che non trova né soluzione, né pace in un pessimismo quasi trascendente che racconta di più di quanto riguardi la storia di Eva e Mikkel.