Venezia 75 – Der Golem o la nascita del cinema d’autore

Nulla di più congeniale del film di pre-apertura del festival, Il Golem – Come venne al mondo (Der Golem – Wie er due Welt kam, Germania 1920) di Paul Wegener, per inquadrare un’edizione della Mostra del cinema di Venezia caratterizzata sia dall’approccio autoriale al cinema di genere, sia dalla polemica sulla presenza dei film Netflix (tra cui si contano i film più notati, quali Sulla mia pelle sulla vicenda di Stefano Cucchi, l’ultimo film “incompiuto” di Orson Welles, e il sicuro successo in arrivo dei fratelli Coen The ballad of Buster Scruggs). Der Golem ci offre l’occasione di riflettere su entrambi questi aspetti, il genere e la distribuzione dei film. Prima di farlo occorre rendere omaggio al lavoro di conservazione e restauro che ci rende possibile parlarne con sempre maggiore cognizione di causa rispetto al passato. Infatti, la pellicola sinora conosciuta non era fedele, nel miglior dei modi, all’originale. Nel cinema muto era normale girare il film con diverse macchine da presa allineate, per garantirsi subito diverse versioni per i paesi stranieri. Ovviamente era normale che solo una di queste cineprese fosse davvero controllata e aderente alle intenzioni di regia e fotografia. In questo caso si trattava della versione tedesca, sinora data per persa. Il ritrovamento del suo negativo presso la Cinémathèque Royale de Belgique ha avviato uno splendido lavoro di ricostruzione di questo capolavoro, cui gli istituti italiani hanno dato un contributo fondamentale, sia perché il restauro è stato curato dal Laboratorio L’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna, sia perché la ricostruzione dei colori di viraggio e imbibizione, oltre che toni e contrasto del bianconero, sono stati ricavati dalla copia positiva della Cineteca Italiana di Milano. Senza contare il ruolo di Nicola Mazzanti e Stefano Francia; il primo oggi Direttore della cineteca belga, ma fondatore di quella bolognese, il secondo per aver seguito, per conto della Biennale, questo restauro per oltre due anni. In realtà il lavoro ha coinvolto non meno di otto istituti nel mondo, dalla Russia agli USA, come è normale nei lavori di restauro, per confrontare tutte le copie esistenti, l’una sempre differente dalle altre e fonte di informazioni. Per esempio, grazie a quella americana è stato possibile ridare agli intertitoli la loro grafica espressionista originale, e non semplicemente riproporne il contenuto testuale con una grafica neutra.

Nel salutare il pubblico in sala Alberto Barbera ha ricordato la coincidenza con l’inaugurazione della prima edizione della Mostra dell’Arte Cinematografica di Venezia, nel 1932, con il Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Rouben Mamoulian, un genere di film che si era sviluppato grazie proprio a grandi successi come Der Golem. Nella stessa edizione del festival troviamo anche il primo Frankenstein di James Whale, che si ispira direttamente al mito del Golem. Sono anni in cui è il cinema tedesco ad aver imposto e dato aurea artistica al genere horror fantascientifico. Un titolo per tutti, Metropolis di Fritz Lang del 1927. Per lungo tempo si è pensato che il cinema tedesco sbucasse un po’ dal nulla dopo la caduta dell’Impero, a seguito della prima guerra mondiale. La sua nascita viene identificata con l’espressionismo, la Repubblica di Weimar e la nascita dell’UFA. La continua riscoperta di tanti patrimoni filmici dati per perduti o inaccessibili a causa della guerra fredda, insieme al proliferare di azioni di recupero e restauro conseguenti, ha consentito di rivedere questo ingenuo schema. Der Golem è uno di questi casi. Nella scorsa edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone si sono potuti vedere alcuni spezzoni della sua prima edizione, data per persa, che risale al 1914. E sono proprio gli anni della guerra, quelli in cui in Germania avviene uno sviluppo dell’industria cinematografica che sfocerà nei grandi successi del 1920, come Il Gabinetto del dottor Caligari o lo stesso Der Golem. Questa seconda edizione di quello del 1914 nasce infatti come suo prequel, il primo più fedele al romanzo di cui è figlio, con il ritrovamento del simulacro d’argilla già sepolto, mentre qui abbiamo la storia della sua creazione a Praga, per difendere la comunità ebraica da un Pogrom. Significativo che una mostra che già nel nome vuole nobilitare il cinema rendendolo “arte”, quindi non considerando le forme più basse della stessa,  abbia sin dall’inizio ospitato film di genere, per loro natura considerati meno artistici e più commerciali. Se questo è potuto accadere è grazie all’invenzione ad opera di due importanti produttori, prima Paul Davidson negli anni della guerra e poi proseguendo su questa strada negli anni venti Erich Pommer, di prodotti destinati a creare un pubblico nuovo, gli Autorenfilm.

Se è vero che l’idea stessa di cinema d’autore nasce negli anni cinquanta e sessanta dalla nouvelle vague francese e poi mondiale, di questa possiamo trovare un precedente forse solo nel cinema della Repubblica di Weimar (Fritz Lang, Friedreck Murnau, per fare due nomi certi, ma il campo andrebbe esteso). Ovviamente bisogna intendersi su cosa si voglia indicare con cinema d’autore: qualcosa che fuggisse dall’ambito del cinema di qualità e che trovasse invece proprio nelle pieghe del cinema industriale la capacità di uno stile fortemente personale dentro un linguaggio estremamente codificato, e quindi di impatto popolare, quali furono infatti i generi: il noir, l’horror, il western. E se c’è un regista con cui la nascente industria tedesca del cinema dette avvio agli Autorenfilm proprio Paul Wegener e molto prima del Dr. Caligari e del cosiddetto cinema espressionista. Il suo Der Golem del 1914 nasceva in un momento storico cruciale per la storia del cinema. Dal 1911 in tutto il mondo, dopo una crisi che per la prima volta fece parlare di morte del cinema, si avviò un radicale ripensamento dei modi di produrre e distribuire il cinema, cambiando non solo il format dei film, che da corto diventa lungo, ma cercando di costruire nuovi modi di “andare a cinema”, di costruire un pubblico e una forma di spettacolo prima inesistente. Gli esercenti che oggi invocano il blocco, come a Cannes così a Venezia, dei film non destinati alla Sala forse dovrebbero studiarsi questo periodo storico, che dal 1911 trasformò radicalmente proprio il loro ruolo, facendo nascere in tutto il mondo il lungometraggio narrativo. Da uno spettacolo da fiera, dove l’esercente compra tanti film da un catalogo fatto di vedute, comiche, brevi ricostruzioni di drammi noti o sacri e scene pietose, e poi ancora comiche e tante acrobazie o magie, il tutto da assemblare in spettacoli di circa due ore e che rimane per sempre di sua proprietà, si passa ad un solo film, dato in noleggio per un periodo limitato e poi da restituire, con una struttura narrativa che attiri un pubblico non solo popolare e spesso in serie per poterlo fidelizzare. Davvero singolare che proprio in questa edizione della Mostra, che vede da una parte le polemiche su Netflix e dall’altra una sezione dedicata alla realtà virtuale (altro spettacolo che ci rimanda alle origini del cinema persino pre-Lumiere, per spettatori singoli e isolati, con gli occhi bloccati dentro un apparato isolante, come il primo Kinetoscopio di Edison), i fratelli Coen abbiano reso omaggio alle origini del cinema nella letteratura popolare seriale con un film a episodi del genere per eccellenza, il western, fatto di tanti corti ognuno di tono differente, dall’azione alla comica, dal melodrammatico all’horror. Un film Netflix, per giunta.

 

Da qualche anno Venezia ha anche una sezione importante di film classici, film restaurati che si affiancano alle novità. Der Golem era solo il primo, di diverso impegno vista la presenza di un’orchestra in sala. Chi vuole difendere la Sala come luogo principe per il consumo di cinema, dovrebbe chiedersi se non è la Sala e con essa le forme di distribuzione del cinema a doversi reinventare, come avvenne negli anni dieci del ‘900. Le Sale devono essere più simili a delle Librerie, e insieme ad esse devono esserci più Biblioteche. Proprio Nicola Mazzanti, Direttore della Cineteca belga, in un recente convegno su cineteche e nuove sale di cinema (a Bologna nel 2016) diceva che Sale come quella di Parigi della Cinémathèque, che stacca circa trecentomila biglietti l’anno, dovrebbero esistere per ogni città di media grandezza e dentro un raggio di non oltre trecento chilometri. Ne esistono poche decine in tutta Europa, invece. Questo vuol dire che il cinema è ancora fermo a quelle forme di noleggio inventate il secolo scorso. Cosa pensereste del mondo dell’editoria se in libreria trovereste solo un libro da noleggiare? O al massimo una ventina di novità presto destinate a essere sostituite da altre dopo una settimana o al massimo un mese? È quello che accade con il cinema in Sala, anche se non ci facciamo caso, ma presto diventerà un problema. Solo che per ora il problema lo sollevano i venditori di film in sala e non il pubblico. Il pubblico si sa corre ai ripari. Immaginate che vogliate leggere la Divina Commedia e che questa non si vendesse in libreria. Se il sistema della lettura avesse la libreria come luogo principe di accesso, e funzionasse come per il cinema, sarebbe così. La Divina Commedia sarebbe conservata solo in qualche Biblioteca, una nazionale nella città capitale e due o tre nate un po’ per caso, in altre importanti città. Netflix è una risposta a tutto questo, ma è una risposta parziale e di certo non sufficiente. Negli USA ci sono già altre library accessibili sul web dove è possibile accedere a immensi patrimoni cinematografici. Se vogliamo che tutto questo continui a incontrare spettatori capaci di trasformarsi in pubblico, occorre che le Sale si adeguino, e che nascano moltissime Mediateche di pubblico e libero accesso. Il pubblico vuol dire incontro, luogo dove riconoscersi e stare insieme, formare una visione, parlarne se non produrre forme di sapere critico. Pensare invece che un Festival sia la vetrina al servizio del marketing di lancio di questa o quella grande distribuzione non può essere la strada giusta. Un film è un film, comunque venga distribuito. E resta tale anche se non distribuito o decenni dopo la sua prima visione. Venezia lo ha capito e speriamo che nascano sempre più spazi che si sgancino da questa logica ormai del “secolo passato”.