Capitano, mio capitano! Come fossero due poeti estinti, Seydou e suo cugino Moussa scrivono la metrica della loro poesia segreta per le strade di Dakar. Poi, come Pinocchio e Lucignolo, vanno via di casa in cerca di un’altra vita: non necessariamente migliore, purché sia un’altra e sia la loro. Lo spirito che li muove è semplicemente quello che da sempre anima i ragazzi desiderosi di scrivere la propria storia, di uscire di casa e di vedere il mondo. Io capitano è una fiaba, un racconto di formazione come qualunque altro, solo che parte da Dakar, attraversa il deserto libanese, giunge a Tunisi e guarda l’orizzonte europeo con gli occhi bagnati di Mediterraneo. La sua colpa è il punto di partenza, perché fa di Seydou e Moussa due migranti e della loro storia materiale che si preferisce ascrivere alla cronaca, invece che al racconto…Il punto è che Io capitano preferisce prendere un’altra strada, sceglie di invertire la prospettiva e raccontare la storia dal punto di vista dei suoi due eroi, attraverso i loro sogni e le loro attese. Inutile appellarsi al realismo, Matteo Garrone la realtà di Seydou e Moussa l’ha già raccontata in altri tempi (Terra di mezzo e anche Ospiti). Qui cerca la linea di confine tra la verità esistenziale di questi due ragazzi (e dei tanti che fanno il loro stesso percorso) e la applica alla narrazione della drammatica realtà in cui si spingono in cerca del loro sogno. Gli si deve riconoscere un’onestà fondamentale: esattamente quella che lo spinge a rispettare il sogno di Seydou e Moussa e a raccontarlo in quanto tale, seguendo la loro ingenuità come si segue l’ingenuità di Pinocchio e di Lucignolo, che sognano il paese dei balocchi.
Amandone la semplicità che li tiene insieme e li unisce agli altri: chiamiamola solidarietà o senso di responsabilità.Garrone ha l’onestà di raccontare Dakar con la dignità di una casa, con la bellezza di un mondo fatto di famiglie e sentimenti, senza farne per forza una “città aperta”. Ed ha anche l’intelligenza di aderire al calvario reale che si prefigura dinnanzi al cammino di Seydou e Moussa, come dinnanzi al tragico cammino di migliaia di altri migranti o profughi: una storia di mercanti d’uomini senza tetto né legge, predoni del deserto che lasciano dietro i più deboli, prigioni clandestine da incubo, ricatti, torture… C’è tutto, in Io capitano, nella sua crudezza e nella sua evidente disumanità storica, reale. Ma allo stesso tempo Garrone ci mette altro: la speranza, la fiducia, il sogno negli occhi giovani, la possibilità di (r)esistere. E lo fa spingendo i fatti nella dimensione affabulatoria di una narrazione che guarda al cuore di Seydou, mostra il suo spirito, la sua dignità di ragazzo, di futuro uomo, di viaggiatore di un sogno che, d’accordo, diventa disperazione e mette a rischio la vita, ma resta pur sempre il suo sogno, con la sua dignità. Se si vogliono gli exempla documentaristici, si può cercare altrove. Qui siamo in territorio di Matteo Garrone, che è un narratore in cerca della dimensione umana delle storie. Il suo approccio dissolve la verità delle cronache nella verità delle vite di cui le cronache mostrano solo l’epilogo. Questa è la favola che insegna il senso della vita: Seydou attraversa il ventre della balena e ne esce sano e salvo. E forte del valore di chi ha dato valore alla vita: a bordo della sua nave non si muore. Capitano, Io capitano…